domenica 25 febbraio 2007

La lingua può impazzire?

(nelle foto: Hannah Arendt e Jacques Derrida)


Nel corso di un’intervista, divenuta poi celebre, alla domanda su che cosa le sia rimasto della Germania di prima dell’esilio, Hannah Arendt risponde senza esitazione: la lingua tedesca, la lingua madre .
“Anche nei momenti più amari?”, ribatte il suo interlocutore.
“Sempre” (immer) è la risposta chiara, semplice, immediata. Nel seguito dell’intervista, Arendt spiega come la lingua madre non possa essere impazzita e come, nello stesso tempo, non possa in alcun modo essere sostituita da nessun’altra lingua .
Trentadue anni dopo quest’intervista, interviene sull’argomento Derrida.
Lo fa in un’amplissima nota, all’interno del suo “Le monolinguisme de l’autre ”. La lettura dell’intervista dell’Arendt gli offre l’occasione per delucidare la tesi, secondo la quale si ha una sola lingua, la lingua dell’altro . Ma una tesi del genere, dall’apparenza paradossale, non può apparire plausibile, se non dopo aver prima decostruito l’atavico concetto di lingua materna. A tal fine Derrida mette a punto una distinzione tra fenomeno e fantasma , derivata dalla lettura lacaniana di Freud , distinzione già inaugurata con Spettri di Marx , e sviluppata, in tempo successivi, con Fichus e con Etats d’âme de la psychanalyse .
Con uno stile duro, al limite dell’invettiva, passa al setaccio ogni parola della Arendt. Dopo aver, subito, bollato il tono della risposta di Arendt (“resta la lingua materna”) come, “nello stesso tempo, remissivo, naïf e saccente ” pone sotto la sua lente esaminatrice l’avverbio “sempre” (immer), pronunciato da Arendt in relazione alla domanda se l’affetto per la lingua tedesca fosse stato mantenuto anche nei tempi più amari (quelli del nazismo) . Questo “sempre” starebbe a significare non solo che l’affetto per la lingua sta sempre là, ma presuppone una “fedeltà indefettibile” da mantenere anche nello spergiuro e nella menzogna . La chiave di volta che fa scattare il ragionamento di Derrida è la duplice considerazione di Arendt che la lingua materna non possa impazzire e che non possa essere sostituita ”. A tal proposito l’accusa di Derrida è feroce, al limite dell’invettiva. E’ l’accusa peggiore, forse, che un filosofo possa fare ad un altro filosofo, quella di indulgere al “buon senso ”. Ed è un’accusa che viene rivolta a una persona che non è più in grado di difendersi. La Arendt è “di buon senso”, in quanto, come tutte le altre persone di buon senso, nega le cose assurde. E infatti nega che una lingua possa impazzire, cosa assurda, per una qualsiasi persona di buon senso. Certo, fa notare Derrida, a prima vista una lingua non può essere curata o messa in analisi. Secondo il buon senso è evidente che i pazzi possono essere solo le persone, non la lingua che viene parlata. La lingua, sembra dire Arendt è più vecchia delle persone che la parlano e a loro sopravviverà e sarà parlata da altri tedeschi, “dai nazisti che non sarebbero più nazisti”, quindi – e qui Derrida, stabilendo un’identità improbabile e non provata, aggiunge qualche goccia di veleno di troppo, e conclude - da non-tedeschi” .
Ma, dopo queste polemiche, un po’ sterili, Derrida passa ai due argomenti forti del suo ragionamento.
Il primo argomento è quello che, Arendt non vuole prendere in considerazione: se le persone impazziscono, non possono essere diventate pazzi indipendentemente dalla lingua materna. Essa deve aver avuto la sua parte, se è vero, come è vero, che la lingua non può essere considerato un semplice utensile, come la stessa Arendt, del resto, implicitamente ammette, in quanto un utensile non potrebbe, come la lingua materna, restare per tutto il tempo (“sempre”) con sé attraverso l’emigrazione e l’esilio.
Il secondo argomento , più difficile da digerire per un lettore medio e di “buon senso”, è che Arendt non ha voluto o non ha potuto vedere che una madre folle e unica, è proprio folle perché unica nella logica del phantasme. E, facendo una distinzione tra “essere” e “avere”,così continua Derrida: anche se la madre non «è» pazza, forse che non si potrebbe «avere» una madre pazza? Sarebbe, allora, la relazione stessa con la madre unica a determinare in tal caso la pazzia.
Ma il passaggio, intrapreso da Derrida, non è chiaro.
A questo punto andrebbe spiegato meglio la logica del phantasme. Derrida, che sembra accorgersene, ci prova con qualche esempio.
Questa sua ipotesi, appena formulata si può spiegare in vari modi. Uno fra questi riconduce all’immaginazione come phantasia e luogo del phantasme.
Ma innanzitutto, dice Derrida, è un phantasme ritenere, anche senza bisogno di aspettare “gli uteri in affitto” e “la creazione assistita” che la madre sia “semper certa” e il padre “semper incertus”. L’immaginazione, parente stretta del phantasme, è stata chiamata (forse da Malebranche) “la pazza di casa”. Allora, dice Derrida, la madre può anche diventare la pazza di casa. Può capitare che una madre diventi pazza. Un’esperienza del genere è, senza dubbio, un’esperienza di terrore. Come se un re diventasse pazzo. O il padre. O la regina. O la legge. O l’origine del senso. Ora questa esperienza può, talvolta, accadere, ma, si dice che non sarebbe dovuta accadere .
A questo punto per Derrida si potrebbe dare la stessa spiegazione, anche con due sensi ancora più radicali. Innanzitutto che la madre lingua come unica insostituibile e come luogo della lingua è proprio ciò che rende possibile la follia. Ma non basta. Ancora più radicalmente si potrebbe affermare che la madrelingua «è» la follia stessa.
In altre parole, credere di avere una lingua materna unica e propria conduce alla pazzia. E’ proprio la madre unica che è sempre luogo di follia. “La tragedia e la legge del rimpiazzo, consiste nel fatto che rimpiazza l’unico – l’unico in quanto insostituibile. E’ sostituibile perché è unico. Si potrebbe mostrare che “l’unicità assoluta rende così folli con la rimpiazzabilità assoluta che rimpiazza il piazzamento stesso”. Del resto la stessa Arendt aveva parlato della possibilità di rimpiazzare la lingua materna e fa degli esempi . In tal caso si tratterebbe di un effetto di rimozione Ed è proprio il nome stesso di Auschwitz, così tremendo, che può rispondere di rimozione .

A questo punto, abbastanza bruscamente, Derrida pone fine a questa lunga nota e passa ad altro.
La decostruzione della nozione di lingua madre, che doveva spianare la strada per ulteriori decostruzioni, è, per il momento, terminata.
Ma la questione, se la lingua madre possa impazzire è, per noi, tutt’altro che chiusa.
A questa determinazione si possono opporre, non solo il buon senso, come, a detta di Derrida, si sarebbe limitato a fare Arendt, ma, con buona pace di Derrida stesso, anche argomenti di natura storica, etica e linguistica.
Dal punto di vista storico bisognerebbe almeno dar conto del fatto che la stessa lingua è servita sia per scrivere poesie, sia per scrivere le Leggi di Norimberga e il Mein Kampf. E ha continuato a scrivere poesie anche dopo Auschwitz .
Poi bisognerebbe capire come mai la lingua dell’odio e dello sterminio sia stata di volta in volta, il latino delle crociate, lo spagnolo dei conquistadores , l’inglese e non solo degli schiavisti e dei colonialisti. Il turco nel 1915. Il russo zarista dei progroms, prima, quello sovietico dei gulag, dopo, (erano diversi idiomi o erano varianti della stessa lingua?) Quindi il tedesco del III Reich. Per finire e, per completezza aggiungiamo anche l’indonesiano e il cambogiano. E c’è solo da chiedere scusa a tutti quelli di cui in questo triste elenco ci siamo dimenticati.
Senza voler togliere nulla al carattere assolutamente unico di Auschwitz e della Shoah, ma anzi, semmai, per meglio chiarirne le peculiarità, è lecito chiedersi se una qualche relazione tra queste diverse lingue che hanno articolato le diverse realtà dei diversi stermini, ci possa o ci debba essere. Senza un’indagine e uno studio comparato, si può ragionare come se non ci fosse nessuna relazione tra le diverse manifestazioni storicamente verificatesi? E si può dare per scontato che una lingua, una stessa lingua materna, una stessa madre, possa impazzire a tratti, senza che questo fenomeno possa essere messo in relazione con altri fenomeni analoghi. Perché anche la pazzia della lingua, se di questo si tratta, è un fenomeno che dovrebbe essere isolato, contestualizzato e studiato, in quanto tale, nelle sue diverse manifestazioni.
A tal proposito non ci sembra inutile di fronte a un’affermazione così drastica, come quella di Derrida, un minimo di storia comparata sulle lingue degli stermini.
Da un punto di vista etico, la determinazione di Derrida, lascia scoperto ampi varchi. Si sa che, se qualcuno impazzisce, vuol dire che è malato. Ma allora di chi è la colpa. E di che tipo di colpa si tratta? Di colpa criminale? Di colpa politica? Di colpa morale? Di colpa metafisica ? Di chi è la colpa? Di tutti? Di nessuno? Di qualcuno? No, perché semmai la colpa e della madre. Ma non è una madre qualsiasi è una lingua madre. E non ha figli unici ma tanti figli quanti sono i parlanti di quella lingua (nel nostro caso tutti i tedeschi). E poi la madre è impazzita. Non aveva facoltà di intendere e di volere. E nemmeno lei può essere considerata colpevole e giudicata. Se è malata dovrebbe essere solo curata. Ma nemmeno questo è possibile. E come potremmo curare la lingua madre usando la lingua stessa della madre, l’unica di cui veramente disponiamo?
Mi pare che ogni aspetto etico, della responsabilità, per dirla con Jaspers della colpa, sia così messo da parte. Cancellato. Rimandato a migliore occasione.
E’ lecito, o anche solamente opportuno mettere da parte la questione della responsabilità, proprio quando si fa un ragionamento che cerca di spiegare e di pensare Auschwitz?

Visto che è una malattia, una pazzia della lingua materna, il solo rimedio possibile, stando a quanto dice Derrida, sarebbe quello di un rifiuto di massa (un rifiuto di pochi individui, sarebbe del tutto irrilevante) della lingua madre, di un madrelinguicidio che sarebbe giustificato se, fosse vero quanto va dicendo Derrida, della lingua madre come luogo della pazzia e anzi, più precisamente che “la madrelingua è la pazzia stessa ”.

Ma quello che più ci interessa in questa sede è verificare le affermazione di Derrida alla luce di alcuni principi fondativi della filosofia del linguaggio e anche, perché no, della linguistica.
Senza perdersi in dispute, infinite, di carattere filosofico e scientifico, prendiamo per buone le nozioni rispettive, di lingua e linguaggio, così come sono, sia pure con le diverse sfumature, largamente accettate da studiosi e filosofi del linguaggio che vedono nel linguaggio una facoltà naturale, un’attitudine, e nella lingua la manifestazione storica di quello che è comune a una comunità linguistica.
Ma anche qui restiamo nel vago. Che cos’è una comunità linguistica? Come definirla, Come delimitarla? I manuali di sociolinguistica quando tentano di dare una definizione di comunità linguistica, non ci riescono. Ne danno una decina diverse tra loro . E dopo una decine, o centinaia di pagine e di tentativi ci rinunciano. I manuali di scienza del linguaggio, quando parlano delle lingue del mondo, non riescono a tenere il conto. Stabiliscono il suo numero tra 3.000 e 6.000. Ma, a detti dei linguisti di professione potrebbero anche essere anche di più. O di meno. Perché non è possibile distinguerle e definirle. Esiste una lingua tedesca, o ci sono tante lingue tedesche per quanti sono i parlanti in grado di comprendersi. Ma che cosa vuol dire “comprendersi”? C’è una soglia del comprendersi?
Quand’è che io ho compreso e sono stato compreso, e quindi sto all’interno della mia comunità linguistica? C’è una soglia della comunità linguistica? Ora questa vaghezza c’è, e rende tutto quanto ancora più vago.

Innanzitutto ci sembra che, in tutto il ragionamento di Derrida, non si nota alcuna distinzione tra lingua e linguaggio. Questo è un rilievo di non poco conto, per di più con un’aggravanti di una certa entità per un testo scritto in una lingua, il francese, che come l’italiano e, a differenza del tedesco e dell’inglese, distingue i due termini: lingua (langue) e linguaggio (langage).
Ora, come abbiamo già visto, Humboldt, parla di linguaggio (e non di lingua) che determina il pensiero: “Il linguaggio è l’organo formativo [organo, non strumento!] del pensiero ”. “E’ vero che nella versione tedesca il termine Sprache, vale sia per lingua, che per linguaggio, ma il contesto è chiarissimo, e la traduzione italiana ne tiene il dovuto conto.
E’ anche vero, come fa notare Di Cesare che “se il linguaggio si manifesta in tante lingue diverse, ogni lingua articolerà diversamente il pensiero ”. Ma è altrettanto vero, come osserva la stessa Di Cesare citando Humboldt che “ciascuno deve portare in sé la chiave per comprendere ogni lingua ”. E più di un secolo dopo Humboldt, Rosenzweig avrebbe detto che una qualsiasi lingua contiene, almeno in nuce, tutto il parlare umano, tutte le altre lingue straniere che saranno parlate, e che, pertanto, “c’è soltanto Una lingua” . Quindi sembrerebbe che si possa parlare di tante lingue, quanti sono i parlanti e di un solo linguaggio.
Con chiaro riferimento, questa volta, alla lingua madre Hamann parla di “Sprache Gebarmütter ” quale matrice della ragione (e della redenzione). Quindi “la lingua è assorbita insieme al latte ” e sembrerebbe anche che sia la lingua madre, non il linguaggio, a farsi mediatrice del mondo. Ma, fa osservare Di Cesare: “ciò non vuol dire tuttavia che la lingua materna determini il modo di pensare e di sentire ”.
Parlare di lingua si può, ma solo come fenomeno al singolare. Infatti, esistono tanti idiomi quante sono le persone. Schleiermacher diceva che “ogni singolo è anche formatore di lingua”. E aggiungeva che “ogni comprensione di un singolo discorso è una comprensione continuata della lingua ”. La stessa rappresentazione di un oggetto è prodotta dal singolo soggetto. Infatti, rispetto al nesso che lega il pensiero al linguaggio, così si spiega Humboldt: “E’ l’attività soggettiva che forma un oggetto nel pensiero. Nessun genere di rappresentazione può essere, infatti, considerato una pura e semplice contemplazione passiva di un oggetto già dato” .
E lo stesso Humboldt aggiunge, a conclusione del suo capitolo sulla “Natura e costituzione del linguaggio” che “Solo nell’individuo la lingua raggiunge la sua determinatezza ultima, Nessuno pensa, con una parola, precisamente ed è esattamente la stessa cosa che pensa un altro ”.
Di qui la celebre sentenza “Ogni comprendere è perciò sempre un non-comprendere ”. E Elias Canetti aggiunge, a conferma, che “ciascun uomo ha una fisionomia linguistica con cui si stacca da tutti gli altri e parla ad un altro in modo che questi non comprenda .
In conclusione ci sembra che la lingua tedesca, come le altre lingue storiche, sia un’astrazione e che un’astrazione, in quanto tale, non possa impazzire. Che non esista “una” lingua madre tedesca, personificata e che possa impazzire. Come non esiste “Una” lingua madre spagnola, “Una” lingua inglese, “Una” lingua turca, e così via. CI sembra anche che le lingue madri siano tante, quante sono le madri, anzi di più: quante sono gli individui. E che il fenomeno dell’impazzimento, quando e se si verifica, sia un fenomeno di tipo individuale, che non colpisce simultaneamente tutte le lingue madri di una stessa nazione, o se, preferiamo di una stessa comunità linguistica, comunque definita.

Franco Maria Fontana, 2003

1 commento:

samantha ha detto...

caro Franco,
veramente un blog degno di te.
Grazie per avermi citato e grazie ancora per avermi risposto, un abbraccio, con stima, samantha...