domenica 25 febbraio 2007

Sterminio della lingua o lingua dello sterminio?



Quando la lingua della madre
è la lingua della morte.


Dopo 12 anni di dominio nazista, la lingua tedesca non era più la stessa. Il paesaggio desolante della Germania ridotta in macerie era la metafora delle condizioni in cui versava la lingua di Lutero, di Goethe, di Heine.
E, per ultimo, di Thomas Mann.
Si trattava prima ancora di pensare alla ricostruzione, di eliminare le tossine che avevano avvelenato la lingua e la società. Era stato avviato un processo di “denazificazione ” che in qualche misura interessava anche la lingua tedesca. Lo stesso linguaggio giovanile, doveva recuperare i modelli precedenti l’avvento del nazismo ed eliminare “locuzioni e parole divenute ormai parte integrante del lessico tedesco” .
Gli slogan, gli ordini, le minacce, il lessico ridotto al minimo, l’odio razziale che, ne era stato alla base, avevano fatto parlare di “violenza” “corruzione” “occupazione della lingua” e aveva indotto a coniare neologismi quali, semanticidio, verbicido, logocidio . Si trattava di ricostruire non solo il modo di parlare di tutti i giorni, ma, a partire dalla “cattiva lingua ereditata” anche una letteratura e una poetica. Diversi gli atteggiamenti sul ruolo giocato dalla lingua rispetto al nazismo. Il dibattito è ancora aperto. C’è chi ritiene che la lingua fosse stata vittima di una violenza, come Ullmann e Young , i quali avevano parlato rispettivamente di verbicidio e di logocidio. C’è anche chi, al contrario ritiene che la lingua non fu vittima, ma colpevole dello sterminio. In altre parole, senza la lingua tedesca, il nazismo non avrebbe potuto imporre la sua legge. Fra questi Steiner secondo il quale «La lingua tedesca non fu innocente degli orrori del nazismo. Non si tratta semplicemente del fatto che un Hitler, un Goebbels e un Himmler per caso parlavano tedesco. Il Nazismo trovò nel¬la lingua precisamente ciò che cercava per dare voce alla sua ferocia ». Un argomento forte a questa tesi lo fornisce Di Cesare, secondo la quale, se è vero che la lingua è matrice della ragione , allora deve aver avuto parte in questi eventi . Infine, per completare il quadro c’è anche chi, come Lang considera la lingua tedesca, nello stesso tempo, sia vittima, sia colpevole . Questi giudizi, così divergenti, si sono riflessi nelle posizioni e nei comportamenti altrettanto diversificati, rispetto alla loro lingua madre, dei diversi ebrei di lingua tedesca. Alcuni anni, un dialogo a distanza tra Arendt e Derrida, è riuscito a far prendere quota e respiro al dibattito. E’ stato, in diverse occasioni, tracciato un abbozzo di tassonomia , con riferimento al rapporto tra la lingua madre (divenuta poi la lingua della morte) e la lingua dell’esilio. E sono state individuate diverse categorie, rispetto sia alla condizione oggettiva: (tedeschi di lingua tedesca, non tedeschi di lingua tedesca, non tedeschi di lingua non tedesca), sia all’atteggiamento soggettivo (rifiuto totale della lingua, mantenimento della lingua, rapporto sofferto con la lingua stessa).

La lingua tedesca per Canetti
C’è poi un personaggio assolutamente atipico che sarebbe una forzatura far rientrare in qualcuno di questi possibili nove casi . E’ Elias Canetti, il quale, proprio per la sua assoluta singolarità, e anche per la profondità delle sue riflessioni sulla lingua, merita una particolare attenzione. Ebreo d’origine sefardita, nasce in una città plurilinguistica dell’attuale Bulgaria. La sua lingua madre è un particolare idioma spagnolo, rimasto quasi immutato a quello del XVI secolo . A otto anni, sulla spinta di un trauma emotivo dovuto all’improvvisa morte del padre “cambia” lingua . Nel 1913, a otto anni la madre gli insegna il tedesco, che come una nuova pelle diventa la sua nuova lingua madre . Quanto all’unicità del fenomeno, non riproducibile nemmeno in laboratorio basta pensare che il piccolo Canetti di otto anni, nato in Bulgaria, ma di madrelingua spagnola, trasferito a Manchester dove parlava l’inglese, impara il tedesco durante una sua permanenza a Losanna (Svizzera francese). Molti anni più tardi, nel 1960, chiarirà, anche a se stesso una sorta di scissione tra l’appartenenza a diverse patrie. Vive da 22 anni in Inghilterra , dove ha messo le radici , anche se il suo spirito non è inglese : A 55 anni, si sente un vecchio spagnolo . Il paese in cui si trova, l’Inghilterra, gli è familiare , ma lingua del suo spirito è il tedesco proprio perché è ebreo . Tutto quello che prova, tutto ciò che può dire, tutti i suoi sentimenti si presentano in tedesco . Quindici anni dopo Auschwitz, non nutre odio verso questa lingua. Al contrario per “questa terra devastata”, il cui destino sente di condividere, nutre un sentimento di gratitudine . Non gli interessa più conoscere una lingua nuova , piuttosto sta cercando “nuove lingue in cui star zitto” . Forse quello che vuole raggiungere è una lingua del silenzio, una lingua sola , una lingua pura, una lingua prebabelica. La torre di Babele ha rappresentato il secondo peccato originale . La parola è snaturata dai troppi usi: troppe lingue si confondono anche in una sola persona . Ma, se da un lato Canetti, mette in evidenza la costrizione cui è sottoposta la lingua, dall’altro ne esalta le potenzialità . La lingua è più forte della necessità di mangiare . Anzi addirittura, in analogia con il Cantico dei Cantici , è più forte anche della morte . Ma le va restituito il suo valore simbolico. Infatti, ogni uomo ha una propria fisionomia linguistica, e non c’è illusione più grande di credere che il linguaggio sia un mezzo di comunicazione tra gli uomini . Così la lingua è stata trasformata in qualche cosa di diverso. Le parole strillate, ripetute e logorate, sono irriconoscibili e non dicono più quello che una volta significavano . In “Il testimone auricolare ” descrive, con mirabile leggerezza, una serie di 50 pregi e difetti della lingua. Ognuno di questi è trasfigurato in un personaggio, animato da un soffio di vita. Ognuno ha un nome proprio: il Leccanomi, lo Scovabellezze, il Lingualesta, il Calibratore, il Nettasillabe , lo Sbiancatutto ecc ecc. Il Nettasillabe ha una bilancia d’oro con la quale pesa ogni sillaba e ogni parola. Se c’è un eccesso nel peso di certe parole, non le pronuncia .
Il Nettasillabe si prende cura dell’integrità delle parole e fa sì che non si abusi mai di loro per fini egoistici. Talvolta può capitare che il Nettasillabe trovi una parola degradata. In tal caso è in grado di purificarla . Non importa quello che si dice, ma è necessario che sia detto in purezza. Per questo, la via più sicura è il silenzio . Il tema del silenzio, tipicamente ebraico, è comune a Rosenzweig e Benjamin , e può essere messo in relazione alle riflessioni sui confini del dicibile di Wittgenstein . Sarà anche costitutivo delle poetiche di Celan e di Ausländer.

La lingua tedesca per Amery
A differenza di Canetti, che accettava la sua condizione di ebreo, errante sì, ma fedele alla lingua tedesca, da far però convergere verso un linguaggio puro, Jean Amery vive l’esilio dalla lingua e nella lingua come una lacerazione irredimibile. Non coltiva sogni di redenzione. La condizione di intellettuale di lingua tedesca quale egli è, e quale non può, e forse non vuole, dimenticarsi di essere, lo colloca in un osservatorio da cui può meglio vedere e giudicare la miseria e il processo di corruzione della lingua. Un processo che, in esilio, presenta caratteri peculiari propri. Amery si accorge che, a poco a poco, la lingua, più che sgretolarsi, va riducendosi. Negli incontri con altri compagni di sventura, gli argomenti e le parole sono sempre gli stessi: la paura e la morte. “Non offrivano nuova linfa alla lingua” . Non solo il lessico, ma anche le stesse frasi fatte cui al massimo i suoi compagni aggiungevano “nel modo più orrendo” le formulazioni del paese ospitante. In Germania certo, la lingua andava declinando e coniugando le parole dell’odio, e del miserevole “slang di guerra” . Ma, almeno, dice Amery, lì il tedesco rimaneva ancora una lingua della realtà, sia pure di una realtà terribile. Anche quando si parlava dell’ebreo che “instilla l’odio asiatico ”. Perché, anche in tal caso, il materiale linguistico è sempre fornito dalla realtà sensibile. La maggior parte degli esuli era convinta che il tedesco si stava corrompendo. Per questo motivo rifiutavano i “brandelli di lingua ” che arrivavano dalla Germania, e ritenevano loro compito serbare pura la loro madrelingua. Ma pur non essendo un linguista di professione, Amery avverte che una lingua staccata dalla vita non può essere conservata. E, infatti, nota che i suoi compagni parlavano da un lato un tedesco “maccheronico da emigranti ”, dall’altro una lingua d’arte, inevitabilmente soggetta a invecchiare e a deteriorarsi. Con acutezza intuisce, a differenza degli altri esuli, che gran parte della “perversione linguistica di quest’epoca ” si sarebbe conservata in Germania anche dopo la guerra, e magari sarebbe anche arrivata a far parte della lingua letteraria. Pur di non rimanere tagliato fuori dalla lingua, tenta, per disperazione di seguirne l’evoluzione attraverso la lettura quotidiana dell’organo delle forze di occupazione tedesche. Ma pure questa fu un’illusione. Chi è escluso dal destino della comunità è escluso anche dalla lingua. Per gli esuli si andava così modificando il contenuto delle parole e la lingua madre era diventata altrettanto ostile di coloro che la parlavano . Nello stesso tempo, mentre la lingua madre diventava ostile, non c’era alcuna compensazione dalla lingua del paese ospitante. Essa si mostrava riservata e concedeva “solo brevi visite di cortesia ”. In conclusione il pesante contenuto della lingua madre già così opprimente durante la guerra, anche a guerra conclusa continuava gravare sulla lingua .

La lingua tedesca per Klemperer
Victor Klemperer, che non rinnegherà mai la lingua tedesca da lui considerata non colpevole, ma vittima, si domanda come mai si fosse potuto verificare questo processo degenerativo, quali fossero le cause, e quale la provenienza (interna o importata dall’esterno)
L’analisi che compie appare articolata e non priva di una sua originalità. Merita attenzione da parte nostra. Se non altro perché Klemperer è la persona che si è occupata, forse più di ogni altra a stabilire una stretta relazione tra linguaggio e nazismo e, in questa impresa ha potuto utilizzare quali ferri del mestiere per la sua indagine, la sua competenza filologica. In più è stato testimone diretto, e vittima di questo processo degenerativo.
Fino alla vigilia dell’avvento del nazismo, la lingua tedesca, secondo Klemperer, era rimasta immune dalla retorica, da lui definita: “così poco tedesca” .
Si può ammettere che la retorica sia stata importata dal fascismo, il quale, arrivato al potere con dieci anni di anticipo rispetto al nazismo, l’aveva collaudata e poi esportata oltr’Alpi. Ora però, si fa osservare, il fascismo fu regime criminale, sì, ma non bestiale. Insomma, le adunate, la camicia nera (cambiata in bruno dal nazismo), il saluto con il braccio alzato, possono, da sole, forse, spiegare la malattia, ma non la specifica degenerazione tedesca.
Allora com’era possibile questo contrasto tra la Germania nazista e l’altra Germania, quella della tradizione precedente? Davvero Herder poteva essere a ragione rivendicato da Hitler? E quale connessione spirituale c’era tra Goethe e il popolo del nazismo?
Viene avanzata una prima ipotesi. In Germania, ascesa e declino in campo spirituale presentano un aspetto particolare: tanto si va verso l’alto altrettanto in basso si scende.“ L’eccessività sembra essere la maledizione” dell’evoluzione spirituale tedesca” . Come racconta Tacito “tanto grande è l’ostinazione dei germani anche nel male: essi la chiamano fedeltà ”
Questa malattia tipica tedesca, Klemperer la chiama «Entgrenzung»: lo svincolarsi dai confini, il non conoscere limiti, che è tipico dell’uomo romantico . A questo punto Klemperer fa due osservazioni, da ritenere di particolare autorevolezza, in virtù della sua professione di filologo romanzo. La prima è che già secoli prima del nascere del romanticismo ogni attività tedesca portava il marchio della romanticità . La seconda è che, in campo letterario, fin dal medioevo è sempre stata la Francia a trasmettere i contenuti alla Germania, ma è quest’ultima che, in tempi successivi, li ha portati all’eccesso, oltre i confini originari . Infine viene osservato che il carattere specifico del nazismo, quello che lo ha reso particolarmente virulento e che, nello stesso tempo è stato un fattore di rapido proselitismo, è l’antisemitismo e la dottrina razziale.
Non c’è dubbio che proprio l’antisemitismo, che ha usato il termine «völkisch», dapprima quasi inoffensivo (derivava da Volk, popolo), come un’arma per farsi largo tra le coscienze, è stato il fattore principale, dal punto di vista linguistico, della degenerazione. E non c’è dubbio che la caratteristica fondamentale tedesca dell’eccessività, della “iperseveranza”, nel cercare di arrivare all’infinito, ha fornito il terreno di coltura più fertile per quest’idea” .
A questo punto viene fatto notare, che il processo di risalita all’origine della dottrina razzista, porta non a un tedesco, ma a un francese: Gobineau .
Ma, sembra concludere Klemperer, è l’eccezione che conferma la regola. Infatti, Gobineau era sì francese, ma un francese sui generis. Fu il primo a teorizzare la superiorità della razza ariana e ad affermare che la massima espressione dell’umanità fosse il germanesimo incontaminato, minacciato dal sangue semitico . Quindi il cerchio, per Klemperer si chiude. Un tratto eterno dei tedeschi è l’eccessività, e il portare alle estreme conseguenze le teorie che provengono dall’estero (specie dalla Francia). Il razzismo, in particolare è stato importato da Gobineau, francese di nascita, ma con il cuore che batteva in tedesco.
I tedeschi non hanno fatto altro, come al solito, di esasperare le sue teorie e portarle alle estreme conseguenze .
“Voliamo alto e perciò cadiamo tanto in basso ”.

Il legame tra la lingua nazista e il genocidio: reificazione e eufemismo
Ma come e in qual modo la lingua è potuta diventare uno strumento di sterminio? In che cosa consiste questo stretto legame tra la lingua nazista e il genocidio?
Non è una domanda facile. In pochi hanno tentato di rispondere. Ancora meno quelli che lo hanno fatto in modo esauriente.
Si è parlato di violenza degli slogan o della “reificazione” dei nemici. L’odio sarebbe montato fino a conseguenze estreme .
Ma ci sembra che non sia questa la strada giusta per tentare di dare una risposta alla nostra domanda. A nostro avviso, infatti, non sia può negare che, quella degli slogan violenti e della reificazione degli avversari, sia un’abitudine generalizzata, sia pure pessima, ma non certo peculiare del nazismo. Chiunque abbia una pratica, anche come semplice spettatore, di cortei politici di vario orientamento in tutto il mondo, sa che gli avversari, o meglio, i nemici, vengono descritti come topi di fogna, sanguisughe, insetti ecc. I telegiornali trasmettono, di quando in quando, al mondo, le sequenze di fantocci dei capi di stato che vengono bruciati in effige. Lo stesso avviene con bandiere, per cancellare simbolicamente, un’intera nazione. Le minacce di morte fioccano e gli slogan bellicosi non si contano neanche in tempo di pace. Senza considerare il caso di reificazione in senso stretto, di stato, posto in essere da parte della più grande potenza dei nostri tempi, che ha indicato con un mazzo di carte da poker gli avversari da eliminare (letteralmente da “prendere vivi o morti”) .
Tanti sono, quindi, i casi di linguaggio violento e di reificazione.
Eppure non si è mai arrivato a nulla di lontanamente paragonabile al nazismo.
Si è anche parlato di “maschera verbale” di una lingua bifronte, che presenta una faccia truce al nemico e una mite agli interlocutori esterni per “sopirne dubbi e timori ”.
Una variante della maschera verbale può essere considerato l’eufemismo.
Primo fra tutti la madre di tutti gli eufemismi, quello della “Soluzione finale”.
O, com’è stato notato, la sua variante “spostamento ad Est” adottato dalla conferenza di Wannsee del 1942, che, di fatto, aveva sancito lo sterminio .
Tutto vero. Ma ci sembra che l’eufemismo o (chiamiamola pure con il suo nome) la menzogna , sia oramai il pane quotidiano di cui si nutrono l’informazione e il linguaggio politico, e non solo. Lasciando da parte i discorsi di quei capi di stato che chiamano atti umanitari, i bombardano degli ospedali, e che non nominano la guerra, ma, semplicemente, la fanno, basta pensare al linguaggio sindacale. La parola licenziamento, proprio di questi tempi, quando è diventata più attuale, non viene quasi più pronunciata. Al suo posto si parla di mobilità. Le persone da licenziare sono definite esuberanti (che, non dimentichiamolo, un tempo era sinonimo di “allegro” e, anche, un po’ “estroso”). Anzi, quelli che vengono “messi in mobilità” non sono nemmeno persone, ma “unità”. Il trasferimento forzato, con abbassamento di qualifica professionale, in un’altra impresa lontana centinaia di chilometri da casa, si chiama, con un prestito linguistico: outplacement. E così, via.
Si tratta anche qui di pessime abitudine. Ma sarebbe esagerato dedurre, come conclusione, che una nuova Auschwitz sia alle porte. Semmai, possiamo pensare che avesse ragione Amery, quando descriveva, nel 1966 (quindi con la giusta prospettiva temporale), come le conseguenze della perversione linguistica nazista si fossero conservate ben oltre il crollo di Hitler . Oppure che avesse ragione Klemperer quando, a proposito di immagini iperboliche, parlava, già negli anni ’40 di appiattimento della lingua tedesca sul modello americano .
Davvero si può pensare che quello che ha reso possibile, e forse, addirittura, direttamente, provocato la più grande catastrofe che l’umanità abbia dovuto sopportare, sia stato solamente l’abuso, la dismisura di espressioni violente o di eufemismi, o di pure e semplici menzogne?
Ci sembra riduttivo.

La distruzione del carattere simbolico del linguaggio
Forse, invece, si è trattato di qualche cosa di diverso e di più grave. Forse abbiamo assistito, a partire dagli anni 30 del secolo scorso, al tentativo, evidentemente riuscito, di cancellare il carattere simbolico della lingua stessa e di ridurla a mero strumento.
A formulare un’ipotesi di cosa possa essere realmente accaduto, ci possono soccorrere Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Canetti, e tutti gli altri che hanno riflettuto sulla dimensione simbolica del linguaggio e che ritengono che accanto a un detto, ci sia sempre un non detto. Che non tutto sia esprimibile. Che quando un uomo parla, c’è sempre un resto. Che per parlare ci debba esser un altro che ascolta e che cor-risponda. Che la più alta forma di espressione sia il silenzio. Che nella lingua vada avver¬tito “un abisso, una profondità ”. Chi, in proposito, ha saputo parlar chiaro, semplice ed esplicito ci sembra sia stato Scholem.
Scholem ha scritto che il linguaggio è come un “medium in cui si compie la vita dell’uomo”. Il linguaggio possiede “un lato interno, un aspetto che non si lascia ridurre alla pura comunicazione fra gli esseri”. Quando l’uomo si esprime vibra qualche cosa che “non è soltanto se¬gno, comunicazione, significato ed espres¬sione ”. La lingua ha una sua “dignità” che mira “non tanto a co¬municare qualcosa di comunicabile, quanto piuttosto — e su questo paradosso si fonda ogni simbolismo — a comunicare qualcosa di non-comunicabile, qualcosa che rimane ine¬spresso e che, se mai si potesse esprimere, non avrebbe comunque un significato, un «senso» comunicabile .”
Il nazismo ha tolto ogni spiritualità al linguaggio. Lo ha ridotto a puro segno, a puro strumento.
Ha tolto alla lingua la sua “dignità”. Con la spiritualità della lingua è venuto meno anche lo spirito dell’uomo, divenuto esso stesso strumento cieco al servizio del progetto industriale della fabbrica di cadaveri.
Ha tolto anche alla morte la sua spiritualità, la sua dignità, e l’ha ridotta a materiale di una produzione in serie.
Forse, solo a partire dal linguaggio, non ridotto a mero strumento segnico, si potrà cominciare a redimere l’umana dignità che, nella meta del secolo scorso è andata smarrita.

Franco Maria Fontana, 2003

Nessun commento: