lunedì 26 febbraio 2007

Tre questioni a partire da "Rahel Varnhagen. Storia di un'ebrea" di Hannah Arendt

(Rahel Varnhagen)

Tre questioni a partire da
"Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea"
di Hannah Arendt
a) il tema della verità
b) Rahel e le sue amiche
c) la questione ebraica tra il 700 e l’800.


I tre temi posti in questione sono strettamente intrecciati fra loro.
Non è facile, a proposito di Rahel Varnhagen e di Hannah Arendt, trattare separatamente la questione ebraica dalla questione femminile, e entrambe queste questioni, da quella, più strettamente filosofica, della verità.
Forse non è nemmeno possibile farlo.
Infatti, i temi messi in discussione, sono sì distinti tra loro, ma appaiono inseparabile come lo sono due facce di uno stesso foglio di carta.
A complicare la faccenda contribuisce, poi, la natura incerta del reperto in questione. E’ un libro, quello su Rahel, che si sottrae a ogni classificazione: libro di storia? di filosofia? biografia?
Ma incominciamo, per punti, a parlare della Verità.

Il tema della verità
• Non c’è dubbio che, negli anni di Marburgo, Hannah Arendt, allieva di Heidegger, abbia studiato e messo a tema la verità come non nascondimento, disvelamento, come aletheia.
La verità, secondo Heidegger: come una sorta di autorivelazione dell’Essere.
E non c’è dubbio, nemmeno, che abbia approfondito la verità dell’altro suo maestro, Jaspers, come autorivelazione dell’esistenza singola: ogni esistenza è a se stessa la sua propria verità.
Così come doveva aver presente la verità come corrispondenza, quale, da Aristotele in poi, era stata teorizzata nella tradizione filosofica.
Né doveva essere all’oscuro della verità come l’opposto della falsità, secondo quello che una corrente di pensiero, che più tardi sarebbe stata definita analitica, andava teorizzando.
In Arendt che pure, risente della lezione dei pensatori che l’hanno preceduta, la verità è qualche cosa di diverso, che ha a che fare sì con l’esistenza, ma anche con la natura e con la storia. E non prescinde dalla ragione. Si intreccia con il destino e con la realtà. Soprattutto ha un carattere plurale.
In una lettera di Rahel a Veit, citata da Arendt, la verità appare già come un’apertura totale, una mancanza di indiscrezione e, forse, di pudore: “Perché non vuole mostrare a nessuno la mia lettera? … Se solo potessi aprirmi agli uomini come si apre un armadio… ”.
In altri casi la verità sembra sia qualche cosa che appare soprattutto in certi luoghi, deputati, come i salotti ebrei (almeno durante quella stagione effimera che si conclude con il 1806 con caduta del Sacro Romano Impero).
Per circa un trentennio, infatti, il salotto ebreo di Berlino ero lo “spazio sociale fuori dalla società” dove si poteva “ figurare quel che si è e non mostrare quello che si ha” .
Sono le “verità di mansarda” che si potevano dire, in quell’epoca, solo in alcune zone franche, nei luoghi sottratti alle regole del tempo.
Da cui, intanto, si deduce che le regole del tempo erano in contrasto con la verità.
Che il mondo, al di fuori della mansarda, fosse falso.
La verità appare intrecciata alla natura e alla storia.
Infatti, se si ignora la propria storia, questa “si vendica e diventa … destino personale” .
Ma la verità, e questo è un tratto originale di Hannah Arendt, ha un carattere plurale. Non ha nulla a che fare con la riflessione solitaria di platonica memoria. Ogni fatto “si può rendere non accaduto con la menzogna…. La menzogna è l’erede della riflessione ”. Infatti, se il pensiero diventa riflessione, conquista un’apparenza di potere illimitato perché si isola dal mondo, si fa illimitato nell’isolamento. Il campione della mania della riflessione è, secondo Arendt, Rousseau. Rousseau non racconta le storie della sua vita, non dice le sue esperienze, ma solo quello che ha provato, ha bramato, desiderato ecc. La vita diventa per lui realtà soltanto nella confessione. “Povera realtà che dipende dagli uomini che credono in essa e la testimoniano ”. E quando Rahel scrive “i fatti reali non mi tangono proprio”, si accorge dello sproposito e lo fa firmandosi, alla maniera di Rousseau: J. J. Rahel .
Spiega Hannah Arendt: nessun essere umano si può isolare a tal punto da non essere sempre rinviato al mondo, se vuole sperare in ciò che solo il mondo può dare: «cose comuni. Che però si devono avere» ”. E aggiunge “la ragione… nell’astrazione distoglie, dall’elemento singolo, trasforma il desiderio di diventare felici in «passione di verità» ”.
Ma Rahel non si sa staccare dalla verità.
A conclusione della sua storia con il conte von Finckenstein, resta passiva: lascia che accada quello che sta per accadere: “non far più nulla, dire soltanto la verità, testimoniare la verità” ”.
Ma questa verità ha un prezzo. Nessuno accetta la verità che Rahel era disposta a gridare. “Ha voluto lottare per dire la verità…. Nel mondo delle opinioni la verità stessa è un’opinione. E’ insignificante.… Per questo il mondo l’ha maltrattata. Hanno respinto chi era stato respinto dal destino, lei e la sua verità» ”.
Certo, a volte cede nell’amore e preferisce essere ingannata.
“Trompes-moi un peu!” Non vuole più la verità … preferisce … la menzogna piuttosto che ritornare a essere sola disincantata e respinta ”.
Ma lo fa solo per prolungarsi la vita: “Mentivo… Perché non dovrebbe essere permessa una menzogna… se riguarda l’amare? …. Mentivo per prolungarmi la vita ”.
Sarà per lei una dura lezione. Imparerà che il destino, non si compie soltanto, ma che vi si collabora .
Più che la riflessione, è l’arte, la poesia, in particolare, che gioca un ruolo nella verità. “La creazione poetica trasforma il fenomeno particolare … in verità generale, … non usa la lingua come mezzo di comunicazione, … ma la trasforma nella sua patria. La lingua deve conservare: … più a lungo che non possa far l’uomo, essere effimero. L’oggetto della rappresentazione …è strappato alla sua particolarità, diventa idea, essenza ”.
Ma il mondo con le sue trame è intriso di menzogna. Allora, per tentare di restare fedele a se stessa e alla verità, Rahel si rifugia in una verità onirica; “L’infelicità cacciata dal giorno si rifugia nella notte ”.
Ma non per questo, Rahel rinuncia alla verità. La sua non è una fuga.
Infatti, non diventerà mai una parvenu che inganna se stessa: “Per diventare un parvenu bisogna pagare con la verità e Rahel non vuole .”
Nonostante i cambi di nome, il battesimo, tutti gli atti di sottomissione e conformismo ai dettami dell’assimilazione, alla fine dei suoi giorni potrà dire, con fierezza: “ tutta la vita mi sono considerata Rahel e nient’altro ”.
E quasi un testamento morale. Arendt ci ricorda le parole di Rahel morente, con riferimento alla sua ebraicità: ”quello che per tanto tempo della mia vita è stata l’onta più grande,…, essere nata ebrea, non vorrei che mi mancasse a nessun costo ”.
Rahel per amore della verità, si salva dal divenire parvenu, e resta paria.

Il tema della verità, dalle evidenti implicazioni filosofiche, verrà messo a fuoco, nella riflessione di Arendt, soprattutto negli anni ’70. Riflessione incompiuta e purtroppo interrotta dalla morte improvvisa, che le ha impedito di concludere quella che sarebbe stata la sua opera filosofica più complessa e significativa: La vita della mente.
Ma già a partire dal libro su Rahel, scrittonegli anni ’30, si possono trovare, sia pure in nuce, interessanti spunti, che saranno confermati dalla riflessioni successive. Il tema della verità, è il punto da cui parte Arendt per imbastire un discorso filosofico. Nella sua biografia su Rahel, Arendt parte da una storia, da un rapporto non trasparente che Rahel ha con la realtà stessa. Un rapporto trasparente con la realtà si lega alla relazione tra storia individuale e storia generale, tra soggettività e universalità. Tra privato e pubblico. Secondo un’interpretazione possibile, per Kant, l’uso della ragione è un dovere della persona solo nella sfera privata. Invece nella società, dove, svolge un compito pubblico, l’individuo, sia esso ufficiale, prete, funzionario statale, deve obbedire senza ragionare. Sara questa la lettura di Kant invocata da Eichmann al suo processo, e da cui Arendt prende le distanze . E’ certo che, al di là dell’uso strumentalmente difensivo e distorto dettato dalle circostanze processuali, questa interpretazione di Kant resta inquietante.
Molte argomentazioni polemiche con Kant, che affiorano già in questo scritto degli anni 30, anticipano quelle poi maturate molto più tardi, negli anni 70, nel corso dei seminari su Kant. Sopratutto Arendt, pur prendendo le distanze da Kant, per la sua filosofia della storia e per la concezione normativa che ne discende, e che mette in questione la stessa libertà umana, si interessa, alla teoria estetica di Kant. In particolare, al giudizio riflettente. Il giudizio riflettente è un giudizio soggettivo, che dipende dai sensi. Non si basa su esperienze razionali e ripetibili.
E’ una modalità di giudizio diverso dal giudizio determinante, che, nella prima Critica, sta alla base della conoscenza.
Arendt scorge nel giudizio riflettente la possibilità di acquisire una prospettiva universale, ma che, nello stesso tempo, non sia oggettiva. Mostra in tal modo, la possibilità di un giudizio che sia, insieme, soggettivo e, in quanto condiviso universalmente, universale. E’ un’universalità soggettiva che, pertanto, non annulla il particolare. E’ un particolare che si deve misurare con altri particolari, secondo un punto di vista allargato. Si parte da una singolarità assoluta, in grado di esprimere un giudizio riflettente. Questa rivalutazione del valore soggettivo del giudizio ha per Arendt una funzione politica, e porta ad una prospettiva particolare nel discorso filosofico.
Questa universalità soggettiva si innesta nella vita di Rahel.
Il pluralismo passa, a partire dalla vita di Rahel, come esperienza.
A questo punto è possibiile leggere la dicotomnia paria-parvenu, già messa in luce da Arendt soprattutto negli ultimi capitoli, scritti in Francia sotto l’influenza della lettura di Bernard Lazare .
Il parvenu è quello che nasconde le proprie differenze, si mimetizza, si mette al centro. Rinuncia alla propria singolarità, rinuncia a essere qualcosa di assolutamnete nuovo e irripetibile, venuto al mondo con la nascita.
Si pone al centro. Ma stando al centro gli manca la giusta prospettiva per guardare tutto quello che gli sta intorno, o, magari, alle spalle. Così il parvenu rinuncia a se stesso e alla propria natura. Invece il paria, si pone ai margini. Riconosce la propria differenza e, di conseguenza, quella degli altri. Stando in periferia, ai margini, ha uno sguardo panoramico e può cogliere meglio le differenze
Su questa idea di oggettività si innesta una discussione epistolare con Jaspers, che pure nel rispetto del rapporto, tra allieva e maestro, assume caratteri forti e appassionati.
Commentando quanto Arendt aveva detto in una conferenza su Rahel del 1930 , Jaspers aveva concluso che Arendt, avesse oggettivato la storia di Rahel, che invece è solo una storia singolare: “L’esistenza ebraica viene da Lei oggettivata nel quadro di una filosofia dell’esistenza… La contraddizione tra libertà assoluta e radicamento ha per me, in senso filosfico, un carattere inqietante ”.
Arendt risponde, anticipando le conclusioni che avrebbe megli esplicitato 40 anni dopo: “In verità esiste in un certo senso un’obbiettivazione: ma non già dell’esistenza ebraica, bensì quella di uno storico contesto del vivere, del quale io credo si possa avere un’opinone, ma non un’idea oggettiva ”
Le considerazioni espresse 40 anni dopo da Arendt sul giudizio riflettente di Kant, il fatto che nella universalità di questo giudizio, la particolarità non scompaia, ma si mantenga un’universalità soggettiva, la possiamo considerare una ben argomentata risposta, a distanza di tempo, alle obbiezioni delmaestro.

Rahel e le sue amiche
• Non c’è dubbio che Rahel vivesse una doppia discriminazione, non solo quella di essere ebrea, ma anche quella di essere donna.
I rapporti con le sue amiche di salotto e di vita, Rebecca e Pauline offrono lo spunto per tentare una lettura di Arendt al femminile, al fine di coglierne il senso.
La questione non è di facile soluzione. Così come è intrigante la questione se la nozione arendtiana di paria sia applicabile anche al genere femminile in quanto tale.
Ma questo punto di vista non può essere trascurato. Questo tema è stato messo a fuoco, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando è diventato di grande attualità.
A prima vista, Arendt non si presterebbe a una lettura al femminile. Come è stato osservato “Arendt non si interessa particolarmente alla problematica della condizione della donna”. Tuttavia viene aggiunto, subito dopo, “la sua opera contiene sufficienti idee di liberazione che meritano di essere considerate ”.
Di sicuro, non sono molte le opere in cui Arendt parla della problematica di genere.
Lo fa, per la prima volta, nel 1933, in una recensione di un libro sulla questione femminile . Ma a dire il vero, in questa occasione, a mio avviso, non va oltre considerazioni abbastanza ovvie, quali “sebbene ai nostri giorni quasi tutte le professioni sono accessibili alle donne”, tuttavia “l’emancipazione delle donne garantita in astratto si rivela come qualcosa di formale che non impedisce la schiavitù nella propria casa ”.
A spiegare la posizione di Arendt rispetto alla problematica di genere, ci vengono però, in soccorso, importanti spunti autobiografici forniti da lei stessa, soprattutto, nel corso di una celebre intervista televisiva del 1964 o raccontini biografici, raccolti in gran parte nella fondamentale monografia di Young-Bruehl .
Ma la fonte principale, in fondo, è costituita proprio dal suo libro su Rahel.
Certo, se si può parlare di femminismo ante litteram, si tratta di un femminismo tutto affatto particolare, anomalo, e forse incomprensibile, per i suoi tempi. Forse perché troppo in anticipo sui tempi stessi e in controtendenza con le più diffuse concezioni dell’emancipazione delle donne della prima metà del Novecento.
Nella intervista del 1964 Arendt, suscitando meraviglia, dichiara di essere all’antica e di aver sempre pensato che ci siano “delle professioni che non si addicono alle donne ”. Non le pare bello – aggiunge - quando una donna si mette a dare ordini. Ma per lei - conclude significativamente - questo problema non ha pesato molto, perché ha fatto sempre quello che le “andava di fare ”.
Nel seguito dell’intervista Arendt ci fa sapere di essere rimasta orfana molto giovane e di essere cresciuta senza un padre. Ma con una madre che svolgeva, in famiglia e fuori, anche un ruolo maschile. La madre stessa le aveva insegnato delle regole che garantivano la sua dignità e le consentivano di difendersi da sola. Possiamo dire, quindi, che Arendt è cresciuta in una indistinzione o confusione di ruoli, senza sentire la mancanza di un padre forte e protettivo, e senza essere, lei stessa, relegata ai ruoli tipici delle adolescenti del suo tempo.
Sulla base di tali princìpi, come fa notare Young-Bruhel, da adulta reagiva polemicamente quando in occasione di inviti o di riconoscimenti veniva enfatizzato la sua appartenenza al genere femminile o veniva qualificata come la prima donna a ottenere un certo risutalto quale, per esempio, essere, lei, una donna!, a capo di un certo seminario .
Non sopportava di apparire una donna simbolo, di quelle che vengono messe in vetrina.
Quando nel 1959 venne nominata professore ordinario a Princeton minacciò addirittura di rfiutare la nomina perché “nel dare la notizia al “New York Times”, l’Università aveva messo in rilievo il fatto che si trattava della prima donna che l’avesse mai ricevuta ”.
In altre parole oggi Hannah Arendt sarebbe contraria, se così possiamo dire, a provvedimenti, ancora oggi talora rivendicati, quali le quote garantite in questa o quella istituzione, per le donne, come misura per l’emancipazione ma che in realtà ne sanciscono la situazione di subordinazione di genere. Non voleva essere considerata una «donna d’eccezione».
Affiora già qui una prima analogia che lega la condizione di ebreo a quella di donna. Infatti nell’espressione ”donna d’eccezione” risuonava quella analoga e simmetrica di “ebreo d’eccezione” quale era stata considerata, in fondo, Rahel Varnhagen. Figura, quello di “ebreo d’eccezione” che la stessa Arendt avrebbe messo in questione in L’Origine del totalitarismo :
Nel caso degli ebrei d’eccezione, aveva spiegato Arendt, questa condizione aveva finito col diventare una questione puramente personale e psicologica, aliena da ogni implicazione che riguardi le discriminazioni politiche o giuridiche. Arendt s’irritava quando sul problema femminile “si voleva creare un movimento politico separato dagli altri, o si formava un interesse di natura psicologica” .

Hannah Arendt non ci teneva, insomma, a presentarsi come una donna (o un’ebrea) d’eccezione. Quello che voleva per le donne, era soprattutto un impegno contro le discriminazioni politiche e giuridiche.
Questo è un tratto di sim-patia tra Hannah Arendt e Rahel.
Un altro tratto è costituito da quel rifiuto della distinzione di ruoli di genere cui Hannah, come abbiamo ricordato, era stata abituata fin da bambina, e di cui c’è una significativa descrizione a proposito di uno scambio di lettere tra Rahel e August Varnhagen, firmate con le sole iniziali. Una lettura in cui, sulla base delle sole iniziali, i ruoli vengono facilmente, non solo confusi, ma addirittura rovesciati. Al punto da sviare uno spirito sicuramente avvertito come Goethe, che finisce per scambiare Rahel per l’uomo e August Varnhagen per una donna !
Un altro caso di scambio di ruoli, viene ammesso da uno dei più importanti interlocutori di Rahel, Gemtz, il quale riconosce che "la nostra relazione è così perfetta perché io sono ricettivo e lei è produttiva, lei è un grand’uomo “ .

Ma tutto questo non deve far pensare a un annullamento delle differenze di genere.
Arendt riconosceva l’esistenza di tratti caratteristici femminili cui non voleva rinunciare. Come abbiamo ricordato poco fa, riteneva che alcuni mestieri non fossero adatti alle donne così come diffidava di tutte le donne che “danno ordini” o che diventano capi politici .
La sua massima, declinata in francese, era “Viva la petite différence!” .
Del resto, come sosteneva il suo amico Hans Jonas, Arendt desiderava conservare alcuni privilegi tipici delle donne: “ricevere fiori, essere accompagnata, sfruttare le attenzioni degli uomini “ . In questo senso possiamo dire che, se, come è indubitabile, non partecipò direttamente alla lotta di emancipazione delle donne nel suo tempo, ciò era dovuto al fatto che stava troppo in anticipo con i tempi. Non si poteva sospettare quaranta o cinquanta annni fa delle prospettive che sarebbero state aperte dalla riflessione delle donne e che nel “femminismo attuale, l’uguaglianza reclamata non implica la negazione delle differenze, ma, piuttosto l’assunzione di queste in funzione di un’autentica uguaglianza” .
Del resto Arendt stessa riconosce che il problema femminile definito come “il divario fra quanto gli uomini «in genere» si aspettano dalle donne e quanto esse possono dare e a loro volta attendano ”è storicamente determinato. Infatti è “prefigurato nelle condizioni dell’epoca” .
Arendt sa riconoscere i tratti femminil
La forma stessa in cui Rahel, si esprime, e che così tanto Hanna Arendt valorizza, con una moltitudine di citazioni, è quella, tipicamente femminile, della lettera e del diario. Sono, infatti, generi “non letterari, semplici, quotidiani, accessibili alle donne ”.
E’ stato osservato un uso caratteristico che di questi generi fa Rahel. Lettere e diario, sembrano scambiarsi le rispettive funzioni.
“Quello che ci aspettiamo di trovare nell’intimità del diario… lo troviamo quasi esclusivamente nelle lettere. I diari, invece… non hanno nulla di intimo e … si adatterrebbero meglio ad una forma più aperta al mondo, come la lettera ”. “Solo comunicando con gli altri, ci si manifesta veramente, la socialità assurge per lei a forma di vita” .
E la lettera sarà sempre considerata da Rahel il mezzo privilegiato per comunicarsi al mondo: “tutto di me, su di me è da ricercare nelle lettere” .
Del resto a proposito di scrittura e verità, la stessa Rahel era consapevole che la lingua era la vita stessa, e che per dire la verità doveva inventarsi una lingua idonea, quella appunto delle lettere: “La nostra lingua è la nostra vita vissuta: io me ne sono inventata una. Per questo [le mie frasi] son diseguali e per molti versi carenti. Ma sono sembre vere”.
Proprio grazie alle lettere, grazie alla vita vera e vissuta trasmessa dalle lettere, nonostante la censura imposte da August Varnhagen, recriminata come tale e contestata, dalla stessa Pauline Wiesel che ne fu forse la principale vittima , e lamentata, poi, da Hannah Arendt nella sua prefazione , è possibile ricostruire il rapporto di Rahel con le sue amiche del salotto ebreo.
Il ruolo delle donne ebree nel salotto di Rahel è stato riconosciuto di primaria importanza.
Sono state proprio le donne, in quel tempo, in prima fila nell’assimilazione. Questo perché “le donne hanno tempo”, mentre “gli uomini sono troppo occupati con gli affari economici" . Del resto, spiega Gentz “le donne sono fra gli ebrei, al cento per cento migliori degli uomini ”.
Tra le numerose amiche di Rahel che animavano i salotti ebraici del tempo, due sono forse quelle che più di altre hanno lasciato il segno.
La prima, Rebecca Friedländer, all’apparenza così uguale a Rahel, con la quale, a un certo punto, Rahel quasi finisce con l’identificarsi, ma rispetto alla quale proverà, in un secondo tempo, un’amara delusione, e l’altra, Pauline Wiesel, all’apparenza così diversa, che sarà l’amica della vita.
A Rebecca, ritenuta insopportabile da Hannah Arendt , Rahel racconta, in grande intimità, tutta la sua vita.
In cinque anni le invia 158 lettere.
Rebecca figlia di ebrei, come Rahel, in seguito battezzata, come Rahel, ha una storia d’amore simile a quella che aveva avuto Rahel con Finckenstein. Anche lei ama un conte, che però non ha nessuna intenzione di sposarla.
Per questo motivo Rahel, sente il dovere di dirle tutto di se stessa, di darle tutta se stessa. Pensa infatti che la sua sofferenza sarebbe stata inutile se non ne avesse reso testimonianza. Emerge, con tutta evidenza, la dimensione plurale della testimonianza. Si testimonia perché un altro faccia tesoro del dolore che è già stato patito, e che, forse, solo in tal caso non sarebbe un dolore inutile. Insegna all’amica, più giovane, che la vita continua, che “vivere dolorosamente significa vivere ”. Vuole soffrire per lei e con lei. La consola e cerca di suscitare in lei sentimenti di solidarietà per il comune destino, di donne deluse da una storia d’amore e di ebraismo: “puo salvare soltanto la solidarietà di persone che, per precisi motivi conoscono la banalità dato che la loro «nascita infame» li ha segnati” .
Le sembra insensato che “quello che ha assaporato fino alla feccia” possa ripetersi. Per questo vuole proteggere l’amica. Per questo è costretta a ripetere e rivivere la sua esperienza.
Ma Rahel rimarra profondamente delusa da Rebecca.
Quest’ultima, anticipando una pessima abitudine dei nostri giorni, scrive, basandosi sulla propria storia d’amore, un brutto romanzo, in cui i principali personaggi sono riconoscibili e derisibili.
Per questo motivo Rahel “la giudica folle e si separa da lei” .

Ben diversa la sua relazione con Pauline Wiesel, bellissima, disinibita, amante del principe Luis Ferdinand, prima che questi morisse in battaglia.
Amica fin dall’infanzia, la ritrova a Parigi.
A Parigi sono entrambe straniere. Per questo, quasi non vengono considerate ebree, in quanto straniere tra stranieri. Infatti: “per diventare berlinese fu necessario allontanarsi da Berlino … l’essere unano non è se stesso se non in luoghi stranieri ”.

Secondo Hannah Arendt, Pauline era l’unica donna che Rahel considerava sua pari .
Con Pauline, Rahel si sente uguale, eppure diversa: “esiste solo una differenza tra noi due: lei vive tutto, perché ha avuto coraggio e fortuna, io le maggior parte delle cose le penso [e non le faccio] perché non ho avuto fortuna e mi è mancato il coraggio ”. Pauline, a differenza di Rahel, è bellissima. Per questo si può permettere il coraggio sociale. Volta le spalle alla società borghese e non si piega a “nessuna convinzione”. Nonostante il suo coraggio o, forse, proprio in virtu di questo, giunge alla propria bancarotta personale. Rahel capisce, allora, che si entra in società solo a prezzo della menzogna. Scopre così che il parvenu è costretto a sacrificare “tutto quanto è naturale, a dissimulare ogni verità, approfittare di ogni amore per la propria ascesa sociale. Se Rahel permette a August Varnhagen di fare di lei la contessa von Ense, di cancellare la sua esistenza e perfino il suo nome, tuttavia resuscita segretamente contro di lui “i brandelli della sua antica esistenza e vive «solo interiormente » la propria vita.
Varnhagen si vendicherà con la censura e con il disprezzo contro Pauline, colpevole di averle distolto Rahel e di averla resa fredda, di “aver seminato zizzania ”.
Ma Rahel non tradirà mai l’amica. Nell’ultima lettera, prima di morire, le confiderà di essere la “prima e l’unica persona ” cui scrive. Con lei ha in comune “l’amore profondamente umano di chi è stato sescluso dalla società per le «realtà vere» - «un ponte, un albero, un viaggio, un odore, un sorriso» .

La questione ebraica tra il 700 e l’800.
• nella prefazione al suo libro su Rahel, Arendt chiarisce, fin dall’inizio che “questa biografia è stata scritta con la coscienza della fine dell’ebraismo tedesco “
Infatti, solo dopo che un fenomeno è giunto alla fine se ne può scrivere la storia. E’ questo in fondo un anticipazione di quanto verrà meglio argomentato in Vita Activa: che il significato di ciò che accade si rivela solo dopo che è scomparso. Un qualsiasi accadimento, finché lo viviamo, non possiamo dire che cosa sia e quale sia il suo significato. Di qui, da parte di Arendt, la fondazione di una vera e propria teoria del racconto e della testimoniana come racconto.
Rahel, con la sua vita, testimonia la storia dell’assimilazione come destino personale.
Ed è solo sul letto di morte, quando si anticipa la propria morte e quando la propria vita è giunta alla fine, che Rahel potrà veramente fare il racconto della sua esistenza, potrà sapere che cosa la sua vita sia veramente stata. Osserva Arendt: “La vita è in realtà finita, non ha più nulla da dire. Di fronte a lei si apre il corso di tutta la vita; parla come sul letto di morte dice cioè la verità ”.
Ed è’, allora, finalmente, comprende che l’essere ebrea, “quello che è stata l’onta più grande ”, non vorrebbe che le mancasse a nessun costo.
Alla fine la vita di Rahel diventa “un frammento di storia ebraica ”.

Sull’assimilazione Arendt è categorica. Con l’assimilazione degli ebrei, “gli ebrei non voglion emanciparsi come totalità, vogliono solo uscire dal loro ebraismo ”.
All’assimilazione gli Ebrei furono attirati con l’inganno. Furono così derubati del puro esistere, delle cose più semplici e importanti, “quelle che hanno le contadine e le mendicanti ”. Più l’ebreo si rifiuta di condividere “il destino comune agli ebrei più il suo destino diventa tipicamente ebreo ”.

Se ci si vuole assimilare non si può evitare di assimilarsi anche all’antisemitsmo e alla vergogna di se stessi.
Rahel aveva fin da bambina provato la vergogna per i suoi parenti ebrei di provincia .
Ma con la vergogna, osserva Arendt, si finisce col cedere molto: “non solo l’appartenenza al popolo ebraico, ma anche la solidarietà con il gruppo degli ebrei d’eccezione”
L’ebraismo, a un certo punto, era sembrato a Rahel, un difetto fisico, una disgrazia: come una gobba o un piede equino… Ma dall’ebraismo non ci si libera se ci si separa dagli altri ebrei. Quando si è soli è difficile stabilire se la diversità è una macchia o un’elezione .

Tuttavia, lamenta Arendt, secondo gli ebrei, e qui è consistito il loro errore, il passato si riesce a superare solo individualmente .
Kant parlava di eutanasia dell’ebraismo.
Christian Wilhelm Dohm, considerato un campione della tolleranza, scrisse per primo un libro sull’emancipazione civile degli ebrei, in cui sosteneva, però, che questi ultimi si dovessero depurare della loro ebraicità, e che dovessero, pertanto, scomparire in quanto ebrei.
L’ebreo Marx con la sua Questione ebraica, sosteneva che il giudaismo avesse sì portato la libertà politica, ma che avesse lasciato sussistere lo sfruttamento economico. Per lui ebreo era sinonimo di capitalista.
Solo per Herder, scrive Arendt, l’emancipazione degli ebrei diventa un fatto politico e non di tolleranza .
Più tardi in uno scritto del 1946, in verità, Arendt ricorderà che anche Humboldt era stato “uno dei pochi autentici democratici tedeschi” che sapeva distinguere tra «ebreo en masse e ebreo en détail». Humboldt mirava a liberare il popolo nel suo insieme, rifiutandosi di riconoscere i privilegi ai singoli ”.
L’ebreo che cerca dei privilegi come singolo, secondo uno schema teorizzato soprattutto da Bernard Lazare, era il parvenu.
Il parvenu entra con inganno in una società cui non appartiene .
Non sogna mai una modificazione della cattive condizioni di vita, ma semplicemente un cambio personale in suo favore .
Il parvenu è divorato da una serie di cose “non desiderate nemmeno, che però, se gli fossero negate, lo ferirebbero”, deve “adattare i suoi gusti, la sua vita, i suoi desideri”. Non ha il “diritto di essere se stesso” .
Il parvenu volendo essere a tutti i costi uguale, rinucia così non solo alla propria individualità, ma anche alla propia natura.
All’opposto la figura del paria , il quale rivendica come un valore la propria differenza.
Rahel, era un particolare tipo di paria: un paria, non dichiarato, non palese, ma un paria «esistenziale» che vive, cioè, forse senza saperlo, la propria esistenza di paria.
Il paria riesce a conservare il senso delle realtà vere rispetto al parvenu condannato a un’esistenza di sole apparenze. Quest’ultimo è mascherato e appare mascherato tutto ciò che tocca. Ma, “non si può a un ballo uscire da una fila per entrare in un’altra ”.

Il percorso della vita di Rahel è quella di un paria esistenziale che dopo aver fatto una vita apparentemente da parvenu, scopre alla fine di essere, in fondo , sempre rimasta fedele alla sua natura, e quindi di essersi, in questo senso, salvata.
Nel ricostruire la storia dell’assimilazione, però, Arendt si mostra ingiusta con Mendelsshon, messo nel mazzo di coloro i quali ritengono che gli ebrei sarebbero “un residuo penoso del medioevo ”.
Mendelsshon sarebbe stato indifferente all’emarginazione politica degli ebrei .
Solo con la ricezione di Mendelsshon, secondo Arendt, “le verità storiche e quelle della ragione vengono separate ”.
Mendelsshon, come rappresentante della “sofistica dell’assimilazione ” avrebbe falsificato la parte più importante dell’insegnamento di Lessing, secondo il quale le verità della ragione hanno pretesa di verità storica. La storia per Lessing è l’educatrice dell’umanità e l’individuo emancipato riconosce le verità storiche in virtù della ragione.
In realtà, però, Mendelsshon è ben diverso da come lo dipinge Arendt. In Jerusalem espone le teorie dell’ebraismo, attingendo alla cultura ebraica senza tentare una traduzione in termini di una cultura diversa. Distingue tra verità eterne (di ragione) e verità storiche. Queste ultime sono quelle che riguardano accadimenti umani e si basano sulla testimonianza. La rivelazione ebraica è una verità storica. Non è una verità eterna e razionale. Nella rivelazione cristiana, invece, vengono esposte verità che non sono oggetto di testimonianza. C’è quindi nella religione sia una dimensone razionale di verità, sia una dimensione di datità, di specificità. C’è una rivelazione ebraica che ha un carattere di storia, che è una verità eterna e razionale. Ma Dio in altri luoghi e in altri tempi ha dato luogo ad altre rivelazioni. Nessuna religione è di pura ragione, E’ questa la base del pluralismo di Mendelsshon. Pluralismo che in Mendelsshon è ben diverso dalla tolleranza se tolleranza significa unificazione o assorbimento delle fedi.
Gesù stesso, come ricorda Mendelsshon, con riferimento alla Torah e alle 613 Mitzwot ha detto che chi non è nato nella legge non deve mantenersi nella legge, e che solo chi è nato ebreo deve rispettare la legge. Lo stato moderno deve essere attuato nella molteplicità delle religioni. Secondo Arendt, Mendelsshon avrebbe portato all’ebraismo la razionalità illuminata e così avrebbe disseccato la storia. Ma, come abbiamo visto, non è vero che Mendelsshon non dia spazio alla dimensione storica
Tuttavia secondo Arendt, che lo oppone a Herder, Mendelsshon sarebbe, quindi, sovraesposto alle verità dell’illuminismo. Al contrario Herder svilupperebbe la sensibilità per identificare la specificità ebraica costituita dal patto sinaitico.
Rimane francamente inspiegabile questa incomprensione di Hannah Arendt per Mendelsshon, considerato da lei non solo il campione e quasi il responsabile dell’assimilazione, ma anche, quasi, un affossatore dell’ebraismo, mentre, al contrario, per tutta la sua vita Mendelsshon testimoniò la sua fedeltà alla tradizione ebraica.
Sorprendente poi che a Mendelsshon, Arendt contrapponga proprio Heine, il poeta ebreo che, a differenza di Mendelsshon, accettò di farsi battezzare, non per convinzione, ma, così aveva dichiarato, per pagare il biglietto d’ingresso nella cosiddetta cultura europea . E’ quella stessa cultura che, come Arendt ben sa, avrebbe avuto come coronamento ed epilogo lo sterminio degli ebrei d’europa.
Ma, in fondo, queste mie considerazioni della sottovalutazione di Mendelsshon da parte di Arendt , così come di alcuni paragoni discutibili, è abbastanza marginale e non tocca l’impianto generale delle argomentazioni. Si tratta, tutto sommato, solo di un esempio sbagliato portato a sostegno di argomentazioni giuste.
Rimane il fatto che per Hannah Arendt l’assimilazione sia stato un inganno in cui non è caduto solo il paria, vale a dire, l’ebreo che non rinuncia alla propria singolarità, non rifuta la realtà, e che, come Rahel, lascia cadere tutto su di sé, come in un temporale quando si è senza ombrello .
Allo stesso modo l’unico modo vero per pensare, secondo Hannah Arendt, rimane quello di pensare senza ringhiera , di “muoversi liberamente senza balaustre su un terreno famliare ” senza modelli prefissati, senza verità universalmente riconosciute. Poiché “ogni verità che è risultato di un processo di pensiero, necessariamente mette fine al processo pensiero ”.

Franco Maria Fontana, 2005

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