venerdì 16 marzo 2007

GLI EBREI TEDESCHI E LA GRANDE GUERRA. IL CASO COHEN


Cimitero ebraico di Berlino: il Monumento e le tombe dei soldati ebrei morti nella guerra 1914-1918


1) Ebrei tedeschi in guerra
Lo scoppio della Grande Guerra, fu, in generale vissuto dagli ebrei tedeschi come una storica occasione di riscatto. Schierati sullo stesso fronte e sotto la stessa bandiera aspiravano alla piena legittimazione della loro appartenenza alla patria tedesca.
Sarebbe stata la migliore risposta all’ondata di antisemitismo che dalla fine del secolo precedente aveva ripreso a svilupparsi, in varie forme, con virulenza in tutta Europa.
Non veniva dato gran peso alle forti discriminazioni formali che perduravano, anche in seno all’esercito e non solo nella società. Qualcuno si consolava con il fatto che, tutto sommato, in Germania le discriminazioni non erano così forti, come in Francia. Un caso come quello accaduto al capitano Dreyfus – si andava ripetendo - in Germania non sarebbe potuto accadere. Ma, forse, ci si dimenticava troppo facilmente che, se questo era vero, lo era solo perché, allora, in Germania un ebreo non avrebbe mai potuto diventare capitano dell’esercito .
Di certo, l’appello alla mobilitazione fu generalmente accolto con entusiasmo. 100.000 ebrei furono mobilitati (su circa 500.000 cittadini ebrei, quasi la totalità dei maschi in età idonea al combattimento). Anche il tributo di sangue fu notevole: 12.000 morti .
Si sa poi come è andata a finire l’attesa gratitudine da parte della Germania. Nemmeno a livello individuale questo tributo di sangue e di eroismo ha avuto un qualche riconoscimento.
Gli ebrei reduci e i decorati della Grande guerra saranno tutti deportati, tra il 1941 e il 1945, nel campo di Theresienstadt . Tra questi anche Martha Cohen, la moglie di Cohen, che morirà nel 1942 a 82 anni .

Tra i personaggi che saranno al centro della nostra ricerca i comportamenti e le motivazioni furono varie.
Rosenzweig, pur essendo dichiarato non abile al servizio militare, nel 1914 chiede e ottiene di partire come volontario della Croce Rossa prima per il fronte belga poi per quello balcanico. Dopo un anno riesce a prestare servizio nell’artiglieria a Kassel.
Rosenzweig non era favorevole alla guerra, ma considerava suo dovere di ebreo tedesco quello di parteciparvi.
Diverso e molto meno “patriottico” il comportamento di Benjamin. Fino al 1914 membro attivo della Jugenbevegung, la gioventù tedesca, se ne allontana, quando, allo scoppio della guerra il capo del movimento insieme a molti altri componenti partono per il fronte. Per scongiurare la chiamata alle armi, Benjamin, simula una sciatica che gli vale l’esonero dal servizio militare . In seguito per evitare di essere richiamato una seconda volta, si rifugia in Svizzera . La guerra sarà per lui un momento di riflessione sul carattere “socialmente regressivo della tecnica moderna”.
Gershom Scholem prende posizione subito contro la guerra. Nutrito di molti testi anarchici e socialisti, tentava, allora, di far coesistere il socialismo, nella sua versione pacifista, con il sionismo . Aveva letto anche i Tre discorsi sull’ebraismo di Martin Buber che lo avevano fortemente influenzato . Insieme all’amico Walter Benjamin condivide le posizioni di Karl Liebknecht, l’unico parlamentare ad aver votato contro la concessione dei crediti di Guerra al Reichstag . Pacifista attivo durante la guerra, Scholem, viene denunciato e costretto ad abbandonare il liceo un anno prima della maturità.
Complesso e contraddittorio l’atteggiamento di Kafka, così come è possibile leggerlo nei diari . All’inizio della guerra sembra ostentare una sovrana indifferenza . Poi manifesta estraneità e disprezzo per i cortei patriottici dei commercianti ebrei . Quindi esprime un sentimento, nello stesso tempo di odio e di invidia, per i combattenti . Ma non riesce a rimanere indifferente. Nei primi due anni di conflitto, da spettatore lontano e isolato, è torturato, dal dubbio se partire militare o far valere il privilegio dell’esonero dovuto al suo lavoro di funzionario presso l’Istituto in cui era impiegato . Poi nel riconoscere la propria incoerenza, si autoaccusa di vigliaccheria . Infine redige di propria mano un proclama per una sottoscrizione a favore dei combattenti vittime di malattie mentali. Nel testo del manifesto coglie l’occasione per denunciare la stretta relazione che lega tra loro macchine, industria e guerra . Nonostante, o forse grazie a queste turbolenze dell’animo, il periodo della guerra è, per lui, tra i più fecondi. Sotto l’impatto della mobilitazione generale, nel 1914 scrive “Il processo” e “Nella colonia penale”. Alla base del suo comportamento contradittorio stava certamente il desiderio di condividere un destino comune, di “integrarsi finalmente nella società” e, forse, anche quello di “essere strappato all’oscuro lavoro di funzionario ”
Singolare il comportamento e le motivazioni di Wittgenstein. Più che l’amore per la patria, sembra spinto da motivazioni di carattere quasi mistiche ed estetizzanti. Parte volontario , per cercare di trovarsi di fronte alla morte e diventare così un “uomo decente” (ein anstandige Mensch) . Dopo un periodo di attesa trascorso nelle retrovie, viene destinato finalmente al Fronte, in Galizia. Ammalatosi alcuni giorni prima della partenza , quando si prospetta l’eventualità di un ritorno nelle retrovie, così scrive nel Diario “il mio comandante, oggi, mi ha detto che vuole mandarmi nelle retrovie. Se ciò avviene, mi ammazzerò” . Una volta raggiunto il fronte chiede per sé gli incarichi più pericolosi.
Al suo posto di combattimento prega tutte le notti Dio perché gli dia il coraggio di guardare la morte negli occhi . Infatti “solo la morte dà significato alla vita” . Si guadagna diverse decorazioni, e anche, caso raro per un ebreo, la promozione a tenente. Alla vigilia dell’armistizio viene fatto prigioniero sul fronte italiano nei pressi di Trento.
Dopo la prigionia a Cassino, torna a casa trasformato. Rinuncia alla cospicua eredità paterna a favore dei suoi fratelli. Decide di andare a fare il maestro in alcuni sperduti villaggi dell’Austria meridionale.
Ma il più patriottico di tutti fu Hermann Cohen, un caso su cui vale la pena di soffermarsi. Nel 1914 ha 72 anni, ma non rinuncia, a mettere, sia pure in senso metaforico, l’elmetto di guerra.
Aveva ricevuto fin dalla nascita un’educazione ebraico ortodossa dal padre, sovraintendente della sinagoga e insegnante nella piccola comunità ebraica di Coswig nello Anhalt .
Nel 1876, trentaduenne ottenuta la libera docenza in Filosofia, fonda insieme a Paul Natorp la cosiddetta scuola neokantiana di Marburgo, che dirige fino all’età di settanta anni (1912).
A quel tempo era l’unico docente ordinario ebreo in tutta la Germania .
Lasciata la scuola di Marburgo, si trasferisce a Berlino dove insegna filosofia della religione ebraica alla Hoschule für die Wissenschaft des Judentums.
Come filosofo era convinto che tutta la tradizione etica dell’antico Testamento e la fedeltà al pensiero talmudico “trovassero il loro fondamento scientifico nella filosofia kantiana del primato dell’etica”.


2) Hermann Cohen: Kant, l’ebreo e il tedesco
Nel 1915, nell’urgenza della guerra, Cohen, non si limita più alle speculazioni teoriche. Vuole, a suo modo, scendere sul campo di battaglia. Tenta, a tal fine, di convincere gli ebrei americani a fare le dovute pressioni sul governo statunitense, per convincere questo paese a non allearsi né con la Russia zarista, ritenuta, non a torto, la principale responsabile dei pogrom, né con la Francia, che, schierata a fianco della Russia avrebbe così rinnegato la Rivoluzione Francese.
Cohen non raggiungerà il suo intento. A differenza di Bergson, suo concorrente in questa impresa, il quale, invece, riuscirà ad orientare gli ebrei americani a spingere per un alleanza con la Francia, e, quindi anche con la Russia.
Per il suo tentativo, che come abbiamo appena visto, andrà fallito, Cohen scrive un pamphlet di una cinquantina di pagine: Deutschtum und Judendum , diffuso in alcune decine di migliaia di copie.
Nel pamphlet sviluppa la tesi di una perfetta simbiosi tra ebraicità e Germanicità, mediata dall’elemento greco.
Alla base di questa conclusione, volendo semplificare un po’, ma, per quanto possibile nel rispetto del testo, c’è un sillogismo (o, a nostro avviso, come sarebbe più corretto dire, un paralogismo) di questo tipo:
a) L’umanità è il concetto fondamentale dell’etica di Kant.
b) L’etica di Kant è l’etica tedesca.
c) Il concetto di umanità trae origine dal messianesimo dei profeti di Israele.
d) Il messianismo è la colonna portante su cui poggia l’ebraismo
Da queste quattro premesse (a + b + c + d) ne deriva che l’etica tedesca si fonda sull’ebraismo

Con il senno di poi, di fronte a questo ragionamento, il lettore di oggi “proverà senza dubbio […] irritazione e resterà sconcertato” come di fronte a “testi maledetti” e azioni vergognose” .
Ma va tenuto conto che la figura di Hermann Cohen era all’epoca di grandissimo prestigio e che il neokantismo rappresentava allora il pensiero dominante in Germania. La stragrande maggioranza degli ebrei tedeschi (non però Rosenzweig, Buber, Benjamin e, naturalmente, Scholem) condividevano, sulla simbiosi, lo stesso pensiero di Cohen.
Ma quali sono, in dettaglio, le argomentazioni, non tutte infondate, di Cohen?
a) Dopo l’annientamento degli Ebrei in Spagna (1492) la Germania, a partire dal Settecento, diviene il centro mondiale della ebraicità.
b) La Germania è anche il paese dove si è più sviluppata la socialdemocrazia e la II internazionale, che viene vista, in virtù dei suoi ideali, la forza in grado di assicurare l’uguaglianza dei diritti agli ebrei
c) Il primato tedesco nella filosofia e nella Teologia è indiscusso, come è indiscusso il contributo che hanno dato e che potranno dare gli ebrei.
d) Gli ebrei risiedevano in Germania fin dal tempo di Tacito. Dalla Germania non sono mai stati espulsi , a differenza di quanto accaduto in Spagna, Francia, Inghilterra, Polonia e Russia
e) Da un punto di vista geopolitico la Germania, è il centro di accoglimento destinato a ricevere gli ebrei dell’Est, anche in virtù della lingua di questi ultimi, l’yiddish, ritenuto un mezzo naturale di integrazione.

La lingua come fattore di integrazione è un nodo non secondario dell’argomentazione di Cohen e vale la pena di riportare le parole stesse della sua riflessione in proposito:
“Il fatto più importante è che questa letteratura, creata dagli ebrei tedeschi, fu redatta esclusivamente in tedesco. Quegli Ebrei, che dai tempi della peste erano fuggiti dalla Germania verso i paesi slavi, [si sottolinea, così,che non furono espulsi, ma spinti a fuggire per motivi di salute] mantennero, anche in queste terre, la lingua tedesca come lingua madre. Un tale atteggia¬mento di devozione ebraica verso i paesi che li protessero, lo si trova anche nella vicenda degli Ebrei di Spagna: dopo la loro espulsione e dispersione in Medio-Oriente, hanno mantenuto l’uso del castigliano classico. In Polonia ed in Russia, la lingua tedesca si è invece confusa con quella locale, diventando un dialetto, che ha saputo produrre una propria letteratura, risvegliata, oggi, dai pogrom russi. Questo dialet¬to tedesco-ebraico è sorto in Polonia, e fu introdotto in Germania solo dopo il movimento di riflusso, che riportò, da quella terra, gli Ebrei, momentaneamente in esilio. L’autentica letteratura ebraico-tedesca è stata scritta in puro tedesco, anche se si è quasi sempre diffusa con i caratteri ebraici. Fin’ora, il dialetto ebraico-tedesco resta sconosciuto in Germania, sia come lingua scritta che orale ”.

Tra le critiche che si possono muovere a queste argomentazioni è stata formulata quella, secondo la quale, Cohen finisce con identificare, tra di loro, Stato e Nazione andando così in conflitto con la stessa fonte kantiana della sua ispirazione.
Secondo Marc De Launay , se lo stato si fonda “sulla nazione, cioè sul radicamento fisico delle persone nel territorio, […] si fonda sul popolo nato su quel suolo: ebbene quello stato potrà solo rivendicare l’universalismo fisico della propria estensione territoriale, oppure, ma è la stessa cosa, l’universalismo culturale, ma di fatto imperiale della sottomissione delle altre culture alla propria, necessariamente superiore, in quanto garantita, nella sua autenticità dalla sua presenza nel suolo nazionale”


3) La decostruzione di Derrida
Chi più di tutti ha contribuito, negli ultimi anni, alla fortuna (o alla cattiva fortuna) postuma di questo pamphlet è Jacques Derrida, che ne fornisce un’ampia decostruzione .
Fin dall’inizio del suo ragionamento, Derrida prende in esame due testi, quello di Cohen, Deutschumtum und Judentum, del 1915 e l’altro, Ein Gedenkblatt, del 1918, l’omaggio funebre di Rosenzweig allo stesso Cohen.
Secondo le modalità generali della pratica della decostruzione, indicate dallo lui stesso, in altra occasione , Derrida si serve di volta in volta di due differenti stili, quello della genealogia e quello del paradosso. Spesso intrecciandoli fra di loro, sviluppa le sue argomentazioni.
Nel suo omaggio a Cohen, Rosenzweig ricorda la propria iniziale diffidenza.
Diffidenza che lascia il posto allo stupore. Si era finalmente accorto che Cohen, era diverso dagli altri professionisti dell’accademia. Era una docente che parlava agli allievi della posta in gioco della vita umana, ricordava loro i rischi abissali del pensiero e dell’esistenza. Derrida sottolinea il termine “abissale”, e, di passaggio, fa notare che alcuni tratti dell’elogio ricordano l’insegnamento di Heidegger, filosofo tedesco e, senza dubbio alcuno, di genealogia greca.
Che cosa si rivela così a Rosenzweig?
L’essenza dell’ebreo tedesco. Ebreo e tedesco.
E qui Derrida comincia la decostruzione vera e propria,
“L’equivoco è notevole” - dice - è sta tutto nella determinazione della congiunzione.
A questo punto, Derrida, per sviluppare il suo ragionamento, apre una parentesi.
La figura dell’abisso è associata in Cohen al fuoco vulcanico, al fuoco liquido e al ritmo di una retorica discontinua, scandita da una rottura, un’interruzione, nella quale secondo Derrida, Rosenzweig riconosce subito un carattere di ebraicità.
Possiamo osservare che l’esperienza della rupture è a partire dagli anni ’80 un argomento ricorrente e importante nella decostruzione Derridiana.
In particolare la rottura (Anstoss per Gadamer, rupture per Derrida) è, forse, la chiave per tentare di comprendere il cosiddetto dialogo tra sordi che ha come protagonisti dialoganti Gadamer e Derrida, iniziato a Parigi nel 1981, e rinfrescato nel 2003, un anno dopo la morte dello stesso Gadamer, in un discorso di Derrida tenuto ad Heidelberg . Il dialogo, ora evidentemente virtuale, per quanto riguarda Gadamer, viene proseguito dallo stesso Derrida eda parte di chi ne ha raccolto l’eredità .

Proprio dal riconoscimento dell’interruzione, Derrida prende le mosse, per alcune osservazioni.
- La prima è che questa rottura ha una duplice funzione: marca l’essenza della congiunzione “e”, ma, e questo è importante, determina anche l’ebreo nel tedesco. A tal proposito Derrida parla di potere dissociativo, di ruptivité (neologismo francese, tradotto correttamente in italiano con il neologismo ruttività).
Insomma la “e” reca con sé sia la congiunzione, sia la disgiunzione.
- La seconda osservazione è che questa “congiunzione disgiuntiva” è anche una maniera di concatenare i discorsi senza incatenarli alla retorica e alle regole di transizione dell’argomentazione filosofica, ma a guisa di una serialità aforistica . Per meglio farsi comprendere, Derrida ricorda la genesi della Stella della Redenzione, costituita a partire da una serie di cartoline postali spedite ad amici e parenti da parte di Rosenzweig, quando si trovava al Fronte. Ciascuna come una breve scossa vulcanica.
- La terza è che l’omaggio di Rosenzweig a Cohen, si basa sulle lezioni orali di quest’ultimo, vale a dire sulla parola e sul ritmo della parola . Non sugli scritti.
Dice infatti Rosenzweig “Non c’è nulla di più ebraico di una simile assenza di transizioni”. Come a dire – aggiunge Rosenzweig – “ben più ebreo di tutti quelli che oggi [nel 1918] rivendicano con visibile nostalgia la loro purezza ebraica” .
L’elogio, come osserva Derrida, accentua la singolarità e la solitudine di Cohen.
Secondo Rosenzweig, Cohen non dissocia il sentimento dall’intelletto. In tal modo associa i problemi “della vita e della morte”.
Cohen, ha un “sistema”, termine che, come sappiamo , dovrebbe far inorridire Rosenzweig. Ma, nel nostro caso, non è così. La singolarità di Cohen - osserva Derrida - consiste nel fatto che non si limita a possedere il sistema, ma “lo offre, dona insomma ciò che ha promesso”
La lode più grande che Rosenzweig può fare è quella di dire che Cohen “ha pensato e dato da pensare al di là del sistema” .
E così continua Rosenzweig: “Fu forse il solo della sua generazione e persino della seguente a non scartare con un gesto sprezzante, da falso sapiente, le questioni fondamentali che da sempre si pone l’umanità e che riguardano la vita e la morte” .
Osserviamo che pensare la vita e la morte è per Rosenzweig un punto discriminante, staremmo per dire uno schibboleth , per stabilire l’appartenenza ai nuovi oppure ai vecchi filosofi . Per questo motivo possiamo dire che in tal modo, Rosenzweig ascrive Cohen nel campo dei nuovi filosofi o se preferiamo del nuovo pensiero.

A questo punto Derrida passa finalmente a parlare del Deutschumtum und Judentum.
Ricorda che Cohen, per stabilire una stretta parentela tra Kant e l’ebraismo, ricerca, innanzitutto un terzo termine comparativo che individua nell’ellenismo.
A proprio sostegno, quasi a proprio testimone, Cohen cita, quale erede ebreo di Platone, Filone di Alessandria. L’esilio dell’ebraismo verso Alessandria avrebbe elevato il destino d’Israele a livello mondiale. Il logos che ha una funzione mediatrice nella filosofia di Filone, diviene il mediatore (Mittler) tra Dio e l’uomo. E così, da ellenistico, il logos si fa cristiano. “Il logos neoplatonico suggella quindi l’alleanza giudeo-ellenistica. […] Che lo sappiano o meno, i tedeschi sono degli ebrei ”
A questo punto Cohen parla di una forza storica fondamentale (historische Grundkraft) che non può mai esaurirsi. E’ una forza che agisce sulle grandi svolte della storia dello spirito tedesco, e, forse facendo irrompere la categoria dell’inconscio di Freud, aggiunge che i soggetti ebrei o tedeschi non ne sono necessariamente coscienti. Si pone, però, il problema di come render conto (logon didonai) del fenomeno ebraico-tedesco.
E a questo punto interviene Derrida formulando alcune tesi, quasi dei suggerimenti, a Cohen stesso.
Secondo la prima tesi, forse provocatoria, non ha molto importanza stabilire se Cohen crede veramente a quello che dice e, più in generale, a tutto ciò che è delirante
Infatti, a ben guardare, Cohen si limita a spiegare solo lo spirito tedesco con l’anima (psyché) ebraico-tedesca. ”Che io ebreo tedesco, vi creda è una questione […] priva di ogni pertinenza. […] Voi avete il diritto di considerare il mio discorso come un sintomo (Wahrzeichen) della follia che esso descrive, ma ciò non toglie nulla al suo valore […] quale autentico sintomo” . In questo ambito il sintomo è sapere e il saper è sintomo. L’oggetto è preso in una struttura di riflessione “artificiale” ciò che chiamiamo psiche. Questa forma di razionalismo è, nella sua essenza amnesia, almeno per quello che riguarda la sua genealogia, vale a dire tutta la filosofia, la ragione o il principio di ragione stessa.
La seconda tesi è che questo ambito, nel quale un sintomo ha la possibilità di divenire verità, non può essere considerato un ambito come gli altri.
Esso, infatti, è addirittura il logos che parla a partire da sé stesso. E per questo motivo, non deve “rendere conto di ciò che forma il principio e permette la ragione”. Questa logica, commenta Derrida, resta dunque assai forte. “Essa è meno una “logica” che un ambire a parlare della logica, a dire il vero sul logos.
“C’è forse una ‘meta-logica”, ma non c’è un ‘meta-logos’” .
A questo punto Derrida fa un passo indietro.
Ritornando al sillogismo iniziale e al termine medio comparativo, l’ellenismo, si tratta di dimostrare come e con quale titolo, qui si inserisca l’elemento tedesco. Infatti, senza una spiegazione convincente, sarebbe allora egualmente lecito, come fa notare Derrida, parlare ad esempio di un anima giudeo-spagnola, o araba-ebraica.
Tale questione non se la pone Cohen, ma, per suo conto e in sua vece, Derrida, che, appunto lo sta decostruendo.
L’anima, di cui si sta parlando – osserva Derrida - non è nemmeno ebraico-cristiana, ma più in particolare è, grazie a Lutero, ebraico-protestante.
Per almeno due ragioni.
La prima è per una certa tradizione tedesca che arriva fino a Heidegger.
La seconda ragione è che, qui, Cohen intende rispondere alla questione dell’essere.
E lo fa attraverso un’interpretazione che prende le mosse dal platonismo, dal logos, dall’eidos, e sopratutto dall’hypotheton platonici. Si potrebbe considerare la riforma luterana come la forma religiosa della razionalità che oppone il logos e l’eidos ai dogmi della chiesa cattolica. E la riforma tedesca si collocherebbe a fianco dell’illuminismo, non contro di esso. Questa volta, però, Cohen per dimostrare la sua asserzione non fa ricorso a un terzo elemento di comparazione.
Per Cohen, infatti, non c’è bisogno di dimostrazione. E’ con tutta evidenza, che questa profondità si manifesta nella cultura spirituale: religione, arte, filosofia. Ma non, per esempio, nella matematica, che è universale per essenza. La domanda “Was ist Deutsch” viene qui ricondotta alla domanda “che cos’è la filosofia tedesca?”
Da questa assunzione deriva poi, semplificando un po’, tutto il resto: la grandezza delle armate tedesche, la necessità del servizio militare obbligatorio, il dovere per gli ebrei del mondo intero a riconoscere nella Germania la loro vera patria e di impedire all’America di allearsi con l’Inghilterra, la Russia e la Francia, la quale ha tradito la sua rivoluzione.
Ma ne deriverebbe anche che la lingua degli ebrei, di tutti gli ebrei del mondo debba essere il tedesco. Perché?
Semplice.
Per Cohen, la Germania è “la madrepatria della loro anima (das Mutterland seiner Seele) ” . Se esiste un internazionalismo ebraico questo ha un senso nella misura in cui tutti gli ebrei del mondo hanno una patria comune per la loro psiche (Seele). Ora questa patria non è Israele, ma è la Germania, “poiché è la madrepatria della sua anima” .
Ma perché, si domanda, gli ebrei americani a cui è indirizzato il pamphlet di Cohen, dovrebbero sentire un obbligo di pietà nei confronti della Germania?
Semplice, risponde Cohen: è a causa della lingua. Anche se l’yiddish storpia, mutila tronca la lingua materna, fa ancora riferimento a quella lingua, alla quale deve la forza originaria della ragione (Urkraft der Vernunft).
A questo punto, Cohen attacca Bergson. A nostro avviso con una caduta di stile che non gli fa onore, degna, piuttosto, di una disputa da cortile. Parla di un filosofo francese, che si fa passare per filosofo originale, figlio di un ebreo polacco che parlava yiddish.
E aggiunge “cosa può mai passare per la testa di questo signor Bergson quando pensa a suo padre e nega alla Germania i suoi ideali?
La decostruzione di Derrida termina mostrando le contraddizioni tra le posizioni di Cohen, e quelle di Kant, sulla federazione tra stati, la pace perpetua, l’esistenza degli eserciti permanenti, che secondo Cohen non sarebbero la causa delle guerre.
Ma tutte queste contraddizioni non impediscono a Cohen di concludere kantianamente il suo pamphlet con un motto, quasi un suggello, kantiano: “il nostro avvenire dipende dalla capacità di concepire, nella loro differenza razionale, la natura e la morale, ‘il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro me’ e di cercare la loro unità soltanto nell’idea del Dio uno.”


martedì 27 febbraio 2007

A proposito di "Pasque di sangue". Intervento nel forum di "Olokaustos" del 27 febbraio 2007


Segnalo che “Pasque di sangue” di Ariel Toaff, il libro tanto discusso e poi ritirato dall’autore, è ora tranquillamente in vendita su ebay.
Le offerte all’asta piovono. La sua quotazione supera i 200 euro.
Non si tratta di una sola copia o di un caso isolato.
Attualmente nel web sono offerte da vari venditori circa 14 copie, vedi la relativa pagina web di e-bay.
Come era prevedibile il linciaggio, prima dell’autore, poi di coloro che hanno tentato di difenderlo, quindi la messa all’indice e la censura (mi piace chiamare le cose con il loro nome) non poteva che portare a una esponenzializzazione dell’attenzione su una cosa che, viceversa, si voleva occultare.
Ora c’è chi aspetta con ansia l’edizione “purgata” col solo scopo di meglio evidenziare le parti cancellate, che saranno, c’è da prevederlo, fotocopiate, scannerizzate, bloggate e messe in circolazione.
Il fascino del proibito, si sa, è irresistibile.

Si può discutere del valore della ricerca di Ariel Toaff, nonostante l’autorevolezza dell’autore imponga prudenza e rispetto.
Si possono, a ragione discutere, sia la scelta sensazionalistica del titolo sia quella della copertina.
Ma il linciaggio, la messa all’indice e la censura non segnano, di sicuro un progresso, sulla strada dell’abbattimento dell’antisemitismo.
Al contrario sono proprio episodi come questo che, nonostante il proliferare dei monumenti e delle giornate della memoria, alimentano l’odioso antisemitismo che non smette di funestarci.

Non sarebbe stato meglio un abbassamento dei toni e magari un confronto con l’autore che non prevedesse la sua abiura?

Franco Maria Fontana

La mia risposta al quesito sul perdono



La mia risposta al quesito sul perdono (1)

Non è facile dire che cosa avrei fatto io se mi fossi trovato nei panni di Wiesenthal.
Una simulazione in laboratorio del mio comportamento, in quelle determinate e particolarissime circostanze, così fortemente emotive e drammatiche, è quasi impossibile. Così come è impossibile riuscire, non solo a prendere una decisione ponderata in una simile situazione, ma anche solo immaginare o rappresentare quello che è stata la distruzione degli ebrei in Europa nel secolo scorso.
Tuttavia non voglio eludere il quesito, e una risposta provo a darla, seppure non una risposta definitiva.
Si dice: non si può perdonare a nome di altri, specie nel caso in cui l’offeso è morto.
Conosco, però, in proposito un’eccezione a riguardo: il perdono di Giovanni Bachelet a nome del padre, “certo di interpretare la volontà di mio padre”.
In quella circostanza ho davvero “sentito” che la volontà del padre si fosse incarnata nelle parole del figlio, quasi che il figlio avesse prestato la voce al padre.
Ma di un caso eccezionale si tratta.
Più in generale, l’argomento che non si può perdonare a nome di altri, specie nel caso in cui l’offeso è morto, è stato già sviscerato, ma non mi pare risolutivo e definitivo.
Basta, infatti, limitare il perdono non a nome di tutto il popolo ebraico, o di tutta l’umanità, ma al mio perdono.
A questo mi sarei potuto e dovuto limitare, anche se la mia insostituibilità in quel preciso momento, poteva caricarmi di responsabilità più alte e quasi universali.
Io credo di potere dare un perdono, un mio perdono, proprio perché, in quanto appartenente all’umanità, sono stato, per quanto mi riguarda, anche io offeso.
Infatti, ci si sente offesi ogni volta che si assiste a un’ingiustizia, senza che possiamo far nulla per impedirla.
Certo non si tratta di un perdono assolutorio, di un perdono definitivo, di un’ultima parola.
Si tratta solo del fatto che una parte sia pur minima dell’umanità offesa, cioè “io”, dà per quanto la riguarda, per la sua quota, il perdono.
Ed è anche chiaro che io lo vorrei dare il perdono e farei di tutto per darlo.
E non avrei pace finche non fossi riuscito a darlo.
Lo vorrei dare perché un’offesa lascia sempre nell’offeso una ferita e, se non si è in pace con gli altri, non si può essere in pace nemmeno con se stessi.
Il perdono, lo darei, ma sarebbe, credo, un perdono non totale e definitivo, non solo per il perdonato, ma anche per quanto mi riguarda.
Per darlo, infatti, e per potermi sentire in pace, come gli altri e con me stesso, dovrei riuscire a dimenticare. E se è vero che il perdono impone di non dimenticare, è altrettanto vero (e qui sta una delle aporie del perdono) che, finché si ricorda, rimane la traccia della cicatrice e non si è ancora guariti del tutto e, quindi, non si è perdonato del tutto.
Infine, se come componente dell’umanità sono, pro quota, parte offesa, è pur vero che, sempre pro quota, sono anche colpevole.
Infatti, se è vero che ci si sente offesi ogni volta che si assiste a un’ingiustizia senza che possiamo far nulla per impedirla, è altresì vero che in tale circostanza ci si sente anche colpevoli.
In questo senso vorrei anche io, allora, chiedere perdono, per quanto mi riguarda, ma non so a chi.
Un credente potrebbe rispondere meglio di me su questo punto. Ma, forse, anche lui sarebbe tormentato da dubbi.
E siamo ritornati così, in fondo, a un altro dei dilemmi o delle aporie del perdono: dover chiedere perdono e non sapere a chi.
Tuttavia non possiamo tirarci indietro.
Perché, se è vero che non possiamo perdonare e ottenere il perdono, è altrettanto vero, nello stesso tempo, che dobbiamo perdonare e chiedere il perdono.

Franco Maria Fontana

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(1) Il quesito mi era così stato posto nel 2005, da Samantha Maruzzella, allora laureanda in Filosofia, oggi felicemente laureata con 110 e lode, nell’ambito di una ricerca sul perdono alla base della sua tesi di Laurea: "Dibattiti sul Perdono. Arendt, Tutu, Derrida", relatore Edoardo Ferrario.

Illustre Signore,

Le chiedo anticipatamente scusa per il tempo che Le chiedo di dedicarmi.
Sono una studentessa della facoltà di Filosofia, dell'Università "La Sapienza", di Roma, ed in questo momento sto svolgendo un'attività di ricerca e documentazione su un tema a me molto caro: il PERDONO. Il desiderio di contattarLa nasce in me dopo la lettura di un meraviglioso testo di Simon Wiesenthal: "Il Girasole. I limiti del Perdono". Simon era stato internato nel campo di concentramento di Leopoli, perché Ebreo. Un giorno viene prelevato dal suo gruppo di lavoro da un'infermiera che lo conduce in una stanza dell'ospedale militare limitrofo, dove giaceva "quasi morta" una giovane SS, di nome Karl. Karl racconta a Wiesenthal tutti i crimini commessi, durante la guerra, e chiede a Simon il Perdono. Lo chiede a lui, in quanto Ebreo. Ma, Simon, si alza e se ne va. Ma Karl resta sempre nei pensieri di Wiesenthal, al punto che, alla fine della guerra, il nostro autore, sfuggito miracolosamente alla morte, va a trovare a madre di Karl, ma non ha il coraggio di raccontarle la Verità su suo figlio. Infine, Simon decide di raccontare questa vicenda, e chiede a grandi intellettuali dell'epoca di esprimere la loro opinione: loro, cosa avrebbero fatto, al posto di Wiesenthal? Io, oggi, pongo a Voi lo stesso interrogativo, così da poter allargare il dibattito. Qui di seguito riporto la lettera di Simon Wiesenthal, in originale, in modo da rendere giustizia alle parole dell'autore stesso. Certa e lieta di una Sua risposta, Le porgo i miei saluti ed un nuovo "Grazie", per il tempo dedicatomi.


Maruzzella Samantha.

lunedì 26 febbraio 2007

Nota del curatore a "Testimoniare" di Edoardo Ferrario, a cura di Franco Maria Fontana, Ed. Lithos, Roma 2006




Nota del curatore

Quello che segue più che una nota del curatore, è una confessione.
Ed è una richiesta di perdono.
Questo libro, forse, non doveva nemmeno essere scritto.
Verrebbe quasi da dire che non è un libro.
E’ nato da un accumulo successivo di materiali effimeri destinati ad un uso immediato e al libro eterogenei.
Di sicuro non è stato concepito come tale.
E’ lui, il libro stesso, che è voluto nascere, se così si può dire, quasi di sua iniziativa e che ha spinto per venire alla luce.
Con questo non si vuol dire che sia la prima volta che delle lezioni diano origine a un libro.
Illustri esempi, non solo legittimano, ma addirittura, nobilitano questa particolare genesi.
Dal corso di Linguistica di Saussure, alle lezioni di Estetica di Hegel, da quelle di Arendt su Kant, alle lezioni o conferenze di Heidegger e Freud.
Per non dire, se vogliamo risalire alle origini, dell’intera opera Aristotele.
Ma sarebbe troppo banale limitarsi a parlare, nel nostro caso, di appunti presi a lezione e poi messi in bella copia in un libro.
Del resto, se di appunti si tratta, questi sono stati presi da uno studente atipico durante delle lezioni molto particolari.
Innanzitutto balza agli occhi che, come allievo, sono addirittura più anziano del mio maestro.
Ho assistito a queste lezioni, con alle spalle una laurea giovanile in matematica e una senile in filosofia.
Sono, insomma, uno dei pochi che ha seguito il percorso indicato da Platone nella Repubblica. E questo, anche se fa sorridere, mi conferisce una certa aura e un segno di distinzione.

Ma sono soprattutto le lezioni di Ferrario ad essere molto particolari.
Non rispondono a un’economia predeterminata.
Non partono, come molto spesso accade, anche in molti degli illustri esempi ricordati, da un’ipotesi di studio: un’ipotesi da sviluppare con una catena di ragionamenti fino a concludersi nella conquista di una tesi compiuta, di una verità dimostrata.
Non seguono, in altre parole, il metodo abituale nelle scienze esatte, forse, troppe volte da queste mutuato e trasferito di peso anche in altri domini del sapere.
Insomma, le lezioni di Ferrario non hanno un andamento lineare.
Ma, in fondo, non hanno, nemmeno, quello, secondo me, più fecondo, a spirale, che consiste nel girare intorno a un nucleo, senza però tornare indietro, ma guadagnando via via nuove posizioni.
No. Questo criterio risponderebbe, in fondo, pur sempre a un principio di economia.
Ferrario, invece, si limita a mostrare una serie di temi eterni e universali quali il perdono, la testimonianza, la pace, l’ospitalità, la guerra, la giustizia, la colpa, la morte, indicandone, con uno sguardo perspicuo, le relazioni, le implicazioni, le interdipendenze, le aporie che le lacerano e le arricchiscono.
E lo fa mettendo in scena un dialogo immaginario tra personaggi di epoche differenti o che, se contemporanei, non si erano mai conosciuti o parlati fra di loro.
Come nel caso di Arendt e Lévinas.

A lezione Ferrario si presenta con una borsa di pelle rigonfia di libri.
La borsa è di quelle vissute, che la sanno lunga. Anche i libri sono vissuti. Ne tira fuori una decina.
Sembra impossibile che una sola borsa, di normali dimensioni, ne possa contenere tanti. Sono zeppi di sottolineature e di segnalibri colorati. Spesso ingialliti. La traccia, forse, di una notte passata a preparare la lezione, ma anche di un lavoro di anni, di una vita di studio.
Con i libri squadernati sulla cattedra, comincia a mettere ordine nelle citazioni.
Perché Ferrario, come Benjamin, ama le citazioni.
In tal modo, inizia a parlare con questi pensatori, ad animarli e a farli dialogare tra di loro.
In un certo senso, fa un po’ da ventriloquo a questi personaggi.
E’, quasi, un demiurgo che, se non crea, almeno resuscita.
La cosa non deve stupire più di tanto. Basta pensare che nessuno degli autori da lui citati, o meglio, ventriloquati è morto del tutto. Tutti si sono guadagnati, da mortali, un posto nella immortalità: da Lévinas a Heidegger e Husserl, da Arendt a Kant fino ad Agostino, Cartesio, Celan, Freud, Kierkegaard ecc.
Qualche volta può accadere che i personaggi rappresentati, se viventi, vengano a mancare proprio durante il corso.
In questi casi la loro morte è l’occasione di una lezione molto particolare.
E’ il caso di Derrida (lezione del 17 ottobre 2004) e di Ricoeur (lezione del 24 maggio 2005).
Viene così impressa un’ulteriore imprevista accelerazione all’attualità della messa in scena, alla sua drammaticità e al coinvolgimento di tutti i partecipanti-spettatori.
Infatti una morte vissuta a lezione non è di quelle che si possono leggere sul giornale.
E’ quasi, la morte di una persona cara, solo pochi giorni prima invitata in aula e di cui si era ascoltata la viva voce. Per ognuno una ferita, un lutto personale.
Ma anche un lutto da elaborare insieme.
Un lavoro del lutto che è anche un compito.
E non un qualsiasi compito di scuola.
I pensieri di questi personaggi, come si conviene, sono sempre declinati al presente indicativo. Questo contribuisce a renderli più attuali e presenti, ma senza che, per dirla con Heidegger, la loro, sia una semplice presenza.
Insomma, quelle di Ferrario, più che lezioni sono eventi.
A questi eventi i giovani studenti si appassionano sfatando così il luogo comune che li vuole superficiali, insensibili e disattenti.
Infatti, le lezioni col passare dei mesi si fanno più affollate. L’aula si fa via via più angusta, con gli studenti seduti per terra o in piedi. Ma, quando non c’è più posto nemmeno per stare in piedi, bisogna andare nell’aula più grande della Facoltà di Filosofia, quella destinata alle occasioni speciali.

Lo studio della linguistica e della filosofia del linguaggio mi hanno insegnato, almeno lo spero, la differenza tra il linguaggio scritto e il linguaggio parlato.
Sono due linguaggi distinti, anche se non linguisticamente separati, in quanto riferibili alla stessa lingua.
Passare da uno all’altro richiede, per dirla con Jakobson, un lavoro di traduzione endolinguistica e di interpretazione.
Non si tratta solo di cercare corrispondenze tra la ricchezza del tono e della prosodia del parlato, da una parte, e la miseria dei caratteri grafici disponibili nello scritto, dall’altra: punti di domanda, di sospensione, esclamativi, sottolineature ecc.
Né di tradurre, con degli improbabili segni scritti, le inevitabili pause del parlato.
Nemmeno di trovare una soluzione efficace per trascrivere le ripetizioni, gli incisi, gli anacoluti, sicuramente necessari per rendere espressivo il parlato, ma spesso da evitare o limitare nello scritto.
Come riuscire a scrivere e a descrivere le espressioni, i sorrisi, gli ammiccamenti, la gestualità così fondamentali nella lingua parlata da alterare o addirittura rovesciare, in qualche caso, il senso del discorso?
E’ forse possibile, poi, tradurre il tono, il colore della lezione e perfino l’odore dell’aula e dei libri, il rumore che viene dalla strada o, magari, il mucchio di zaini accatastati in un angolo?
Una traduzione fedele è, dunque, impossibile.
Ma, in fondo, anche la più fedele delle traduzioni possibili, sarebbe, forse, il più grande tradimento.
Perché tradurre è tradire. Ce lo dice la stessa etimologia.
E Walter Benjamin, nel Compito del traduttore, ci insegna che una “traduzione che volesse trasmettere e mediare non potrebbe mediare che la comunicazione – perciò qualche cosa di inessenziale”.
Per trasmettere l’essenziale, un certo grado di infedeltà è necessario.
Se così è, allora bisogna, in qualche misura, tradire, per avvicinarsi il più possibile al pensiero autentico.
Perché, come ci ha ricordato di recente in un’intervista Edgar Morin, anche in questo tradimento resta sempre un fondo di verità.

Ciò non toglie che sempre di tradimento si tratti.
Allora devo confessarlo e lo confesso: ho tradito.
Per questo devo chiedere perdono.
E non solo per questo.
C’è dell’altro. So che Ferrario è persona molto schiva, che non ama apparire.
Se è così, forse, le mie parole possono averlo messo in imbarazzo.
D’altra parte, non si deve mai mentire a un amico, sia pure un maestro amico.
Ma è anche di questo che devo chiedere perdono.

Franco Maria Fontana, 2006

Auschwitz: la lingua della morte, la morte della lingua



Franco Maria Fontana, Auschwitz, la lingua della morte, la morte della lingua, in “La Rassegna mensile di Israel”, vol. LXX, n. 2, Maggio – Agosto 2004 Jiar - Av 5764, pp. 17-49.


Genealogie della lingua violata
“Dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio” .
Il secolo XIX, proprio perché contraddistinto dai tratti originari del totalitarismo e dalla larga diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, è stato anche un grande laboratorio per la violenza sulla lingua.
La lingua, come ben sanno i linguisti, sottostà a principi sia di conservazione, sia di cambiamento , determinati da fattori quali la massa dei parlanti e il tempo. Ma la massa stessa, pur essendo uno dei fattori determinanti, “non può esercitare la sua sovranità neppure su una sola parola” .
Gli Stati totalitari, per la loro stessa natura, non lasciano la lingua libera di seguire il suo corso naturale. Al contrario, tentano, con interventi dirigistici di forzarne e di deviarne il cammino. Viene così impressa un’accelerazione da parte di un potere extra-linguistico “che provoca una “coartazione dei valori simbolici e una semanticità strumentalizzata” . E’ però vero che, nella storia recente, talvolta anche Stati non totalitari hanno tentato di forzare la lingua . Resta il fatto, tuttavia, che, agli Stati totalitari spetta, questa caratteristica, non per accidente, ma per essenza. In altre parole, la violenza sulla lingua è uno dei tratti pertinenti e irrinunciabili di questa forma-Stato.
Pertanto appare necessario e preliminare, esaminare i caratteri originari del totalitarismo, a partire dalla parola stessa che lo nomina e dalla sua genealogia.
Il libro di Hannah Arendt, che, forse più di tutti ha contribuito a diffondere questo termine, e che, lo richiama nel titolo “Le origine del Totalitarismo”, non è però di grande aiuto proprio per lo studio di queste stesse origini.
Il termine è nato in Italia ed è, anzi, da considerare tra i nostri tipici prodotti nostrani .
Dapprima è stato usato, con valore negativo, in polemica con Mussolini, dall’antifascismo italiano: Giovanni Amendola , Luigi Sturzo , Lelio Basso . Poi lo stesso Mussolini se ne è appropriato, dandogli un valore positivo, in un memorabile discorso ai sindaci . Qualche anno più tardi questa parola ha avuto il suggello, sempre per mano del duce stesso, da parte dell’Enciclopedia Treccani . Perfino Antonio Gramsci, dal carcere, partecipava al dibattito sul termine e ne spiegava il significato . L’insegnamento sullo Stato totalitario veniva impartito anche nelle scuole . Giovanni Gentile nell’evocare questo concetto si rifaceva all’accezione hegeliana di realtà etica . Ma proprio questo riferimento era da parte dei nazional-socialisti motivo di polemica . Infatti, gli ideologi della Germania hitleriana negavano, perfino, che il III Reich nazista fosse, a differenza di quello italiano, uno Stato totalitario .
Solo a partire dal 1931, vale a dire sei anni dopo il discorso di Mussolini ai sindaci, Carl Schmitt e il suo allievo Ernst Forsthoff , elaborano il concetto di Totale Staat (Stato totale), “a metà strada tra la «mobilitazione totale» di Jünger e lo Stato totalitario del fascismo italiano” . Secondo Schmitt, dalla guerra era emersa una forza nuova capace di statalizzare la società civile . Aggiungeva Schmitt, che lo Stato veniva definito dallo jus belli, vale a dire, “dalla possibilità di fare la guerra e quindi, spesso, di disporre apertamente della vita degli uomini” . Tale distinzione insieme al primato italiano per questa forma Stato veniva rivendicata anche, con autorevolezza, da parte fascista . Del resto non va dimenticato che, fin dal 1926, nel Mein Kampf, lo stesso Hitler tendeva a prendere le distanze dalla concezione totalitaria fascista, spiegando che lo Stato non doveva essere un fine, ma un mezzo . Di tutto questo dibattito non c’è traccia nel libro di Hannah Arendt. L’origine del termine non viene indagata, fatto sorprendente per un’allieva di Heidegger il quale insegnava ad “ascoltare la saggezza delle parole”. Addirittura il fascismo italiano non viene nemmeno considerato nel novero degli Stati totalitari. Questa esclusione può spiegarsi, con il fatto che il progetto iniziale di Arendt era uno studio sul razzismo e sul nazismo . D’altra parte, se è vero che Arendt presenta il totalitarismo come una sintesi di diversi elementi quali: antisemitismo, imperialismo, colonialismo e razzismo, ancor meno si capisce l’esclusione dell’Italia fascista. Tra le novità introdotte dal Totalitarismo, Arendt annovera anche “i campi di concentramento e di sterminio”, che “servono al regime totalitario come laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio assoluto sull’uomo” . Ma come va intesa la congiunzione “e” dell’espressione “campi di concentramento e di sterminio”? Si tratta di un’endiadi (i campi di concentramento sono anche di sterminio) o di semplice congiunzione di due sintagmi (ovvero i campi di sterminio e di concentramento sono di due tipologie distinte)? Questa distinzione non è chiara . In proposito non va dimenticato che il fascismo aveva, come sua istituzione originale, fin dal 1926, il confino di polizia .
Nello stesso tempo rimangono perplessità, con riguardo agli elementi ricordati da Arendt, sull’inclusione, tra i paesi totalitari, dell’Unione Sovietica, che aveva, sì, i Gulag, ma fra i suoi caratteri costitutivi non annoverava l’antisemitismo, e, meno che mai, un progetto di soluzione finale.
La distinzione, da parte di Arendt, tra regime nazista e stalinista è molto debole. Si riduce ad affermare che l’eliminazione fisica, giunta a perfezione nei campi nazisti, non era la regola in quelli stalinisti. C’è, nel libro, in merito, solo un brevissimo accenno alla testimonianza di una donna sopravvissuta a entrambi i campi, relegato in una nota a piè di pagina . E’ evidente che tra i diversi regimi ci troviamo in presenza di somiglianze e differenze. Appare lecito quindi parlare di diversi totalitarismi, come, dalle stesse fonti “totalitarie”, non si è esitato a riconoscere .
Ma c’è un'altro termine che più di totalitär può essere considerato la parola chiave per comprendere e spiegare la lingua nazional-socialista.
Questo è almeno il punto di vista di Jean-Paul Faye, studioso di formazione strutturalista , il quale sulla scorta dello studio di questa parola ha inaugurato una serie di ricerche sul linguaggio totalitario tra cui quella che, forse, rimane la più completa e ponderosa sull’argomento . In un recente libro intervista Faye racconta la scoperta di questa parola, la sua genealogia e l’importanza assunta nella sua ricerca . Gli ideologi nazisti, come abbiamo visto , criticavano la filosofia fascista che poneva lo Stato a fondamento della nazione. Per loro, invece, lo Stato non era altro che un mezzo al servizio della «völkische Gemeinschaft», binomio intraducibile in italiano, ma che a un dipresso, può tradursi come la comunità identitaria fondata sulla razza.
Il termine «völkisch» è fondamentale per comprendere la natura del nazismo. La campagna di “rettificazione ideologica” per fissare compiti e finalità del nazional-socialismo fu aperta da Alfred Rosenberg, considerato la personalità più autorevole in materia, sull’organo del partito che non solo nel nome del partito stesso, ma anche in quello della sua testata, richiamava questo termine .
Secondo Faye, la parola “völkisch”, chiave di volta per comprendere la peculiarità del nazismo, “introduce un enigma” . Heidegger, nel 1933, la ripete con insistenza nel suo discorso sul rettorato . Faye che diffonde per primo in Francia questo discorso traduce “völkisch” con il termine “raciste” (razzista). Le polemiche si scatenano. Perché – si dice – tradurre questo termine, che ha nella sua radice Volk (popolo), con “razzista” e non invece con “popolare”?
Faye risponde che dal 1880, cioè dalla ripresa dell’antisemitismo in Europa, questo termine in Germania vuol dire “antisemita” o più esattamente “razzista”. Anzi, più in generale, ricopre il campo semantico di ogni esclusione. Il bersaglio è il Welsch , vale a dire tutto quello che viene dall’occidente. Così, almeno era il Welsch in origine. Ben presto, però, il termine Welsch finisce col coprire, semanticamente, anche i polacchi e, ancora di più, gli slavi. “Ma il bersaglio principale sono gli ebrei. Il termine «völkisch» diviene veramente sinonimo di «antisemita» e praticamente, nel 1900, sostituisce la parola «antisemita» nella lingua politica usuale dell’estrema destra tedesca” . Infatti, nell’uso comune la parola «antisemita» appariva poco rispettabile. Ed è così che, ad esempio, il partito antisemita degli anni 1886-1888, va a cedere il nome e il posto ai partiti «völkisch» . «Völkisch» è la parola giusta per consentire al nazismo di diffondersi. E’ talmente misteriosa – spiega Faye - da essere inattaccabile. Non è vulnerabile, perché non le si può rimproverare questo riferimento al popolo [Volk], ma, nello stesso tempo, in un batter d’occhio, si sa subito di cosa si parla. Si sa che questa parola vuol dire che esiste un gruppo sociale da abbattere, lo stesso che indica la parola «antisemita» . Di questo ne erano ben consapevoli gli ideologi nazisti che non lasciavano dubbi in proposito quando spiegavano il significato di «völkisch», come “comunità naturale del popolo” e “unità di vita biologica” legata allo spazio natale . Insomma: terra e sangue.
All’ingresso dell’inferno di Auschwitz, campeggiava la scritta, tuttora presenta a futura memoria: Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) .
Secondo Aldo Enzi, «Arbeit» è una delle parole chiave del pensiero nazista .
La frase, a prima vista, può sembrare una derisione e una menzogna sfrontata, un’ulteriore ingiuria nei confronti dell’umanità. Ma per Enzi, non è così. In particolare non è una “menzogna sfrontata” rispetto alla concezione del lavoro come mezzo di elevazione dell’uomo. Né, di sicuro, i nazisti l’avevano scritta con questo intento. Si tratta del risultato, spinto alle sue estreme conseguenze di una delle “verità” del capitalismo, cioè del lavoro spersonalizzato indifferenziato, astratto, ma fatto coincidere con la realizzazione della propria identità.
In linea con questa logica l’Arbeit non è solo un dovere verso lo sviluppo produttivo della Gemeinschaft (la comunità identitaria), ma viene anche identificato con il pieno sviluppo dell’individuo, così come atteso dall’ideologia nazista.
Con questa concezione è possibile portare ai limiti estremi il lavoro e il suo sfruttamento. «Arbeit» perde nel lessico della Germania nazista, ogni riferimento allo sfruttamento, all’alienazione, all’antagonismo tra capitale e lavoro. “Il suo campo semantico si allarga al punto che «Arbeiter» (lavoratore) si identifica con il « Volk » (popolo)” .
Arbeiter è anche il soldato. Guerra e lavoro si identificano nel segno della «völkische Gemeinschaft», vale a dire nel segno della comunità identitaria fondata sulla razza. Con l’associazione di Arbeiter a Krieg (guerra) si contribuisce anche al superamento dell’orrore che poteva suscitare da sola la parola Krieg all’indomani di una guerra sanguinosa e perduta. L’uso di Krieg, da solo, così come di altri termini in grado di evocare la violenza veniva volutamente evitato . Per esempio l’invasione della Polonia, veniva definita un’azione di polizia. In effetti per i nazisti si trattava, molto semplicemente, di un lavoro come un altro, da portare a termine con distacco. Senza passione e senza orrore . In quest’ordine di idee si può spiegare che la guerra diventi un mezzo naturale e necessario per produrre la pace, e si spiega anche il paradosso di Auschwitz, campo di “lavoro” (Arbeit), in cui la principale attività era la produzione di morti ad opera delle stesse vittime: produzione di morti a mezzo di morti . Abbiamo volutamente parlato di produzione di morti e non di morte (al singolare). Lo abbiamo fatto in accordo con Giorgio Agamben, secondo il quale, nel caso di Auschwitz non si può parlare propriamente di “morte”, ma semmai di fabbricazione di “cadaveri” . Più che il numero delle vittime, è proprio il modo industriale di uccidere che lascia sgomenta Hannah Arendt e che le fa dire “Non sarebbe mai dovuto succedere” .
Il processo di produzione, come ricostruito dalle ricerche storiche successive e dalle stesse confessioni delle SS , era scandito, secondo i principi della divisione del lavoro di Taylor e della catena di montaggio di Ford. Quindi per i tedeschi non si trattava tanto di combattere una guerra, quanto di fare un lavoro come un altro. Né più, né meno.
Un lavoro da fare, per quanto possibile, in pace.
Del resto, lo stesso Hitler, a modo suo, andava ripetendo di desiderare arden-temente la pace.
La pace teutonica (deutscher Frieden). Non meraviglia, allora che ogni atto di aggressione veniva presentato come espressione di “Friedensbereischaft” (propensione alla pace). Celebre il “discorso della pace” di Hitler che riuscì a commuovere profondamente il popolo tedesco e a rassicurare il presidente Roosevelt . La ricorrente Arbeitseinsatz (mobilitazione del lavoro), pervasiva al massimo grado, si esercitava nel segno di una simbiosi civile-militare. Il sacrificio dell’alterità era totale. Il singolo perdeva la propria identità in cambio dell’identità generica di: lavoratore, soldato, tedesco, ariano.
In quest’ambito il termine “Arbeit” assume, come già accaduto nell’Italia fascista con il termine “lavoro”, un significato interclassista .
Ma nella Germania nazista c’è, come evidente, qualcosa di più.
Nel lessico della Germania nazista, esiste un termine, Arbeitgemeinschaft, (collettività di lavoro) che indica la comunità di interesse tra capitale e lavoro.
Il termine era in uso anche prima dell’avvento del nazismo, ma con il nazismo assume connotazioni “razziali e nazionalistiche” .
Sul tema del lavoro indifferenziato tipico dell’ideologia capitalistica, e sul fatto che questa concezione ha finito col contagiare anche i sostenitori delle forme sociali alternative, socialistiche o comunistiche, i quali non riescono ad immaginare altra fonte di ricchezza sociale se non il lavoro per tutti, prende la parola Walter Benjamin.
Lo fa nelle sue Tesi di Filosofia della Storia, scritte poco prima di morire, nel 1940, con una chiara allusione, non solo alle socialdemocrazie, ma anche all’Unione Sovietica. Richiamandosi a Marx e alla critica da parte di quest’ultimo al programma di Gotha che, appunto definiva il lavoro come “fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura”, ricorda come, secondo Marx, l’uomo, dal momento che non possiede altra proprietà se non la sua forza lavoro, finisce col diventare lo schiavo di altri uomini. Benjamin considera, quindi, tipico del marxismo volgare e del “falso messianismo” “questo concetto della natura del lavoro” che “non vuol vedere i regressi della società” mentre “mostra già i tratti tecnocratici che appariranno più tardi nel fascismo” .

Parlare e pensare nel Lager
Il tema dell’incomunicabilità a Primo Levi non è mai piaciuto . Jean Amery, a sua volta, sostiene che, sulle difficoltà di comunicazione dell’uomo moderno, si sostengono non di rado tesi assurde che sarebbe opportuno tacere . Secondo Levi, si può sempre e si deve sempre comunicare. L’uomo è biologicamente predisposto a farlo . Un parlante non può sottrarsi alla comunicazione. Nella tradizione del pensiero occidentale questo è un dato acquisito. Anche per Aristotele un uomo che non dicesse nulla, che non rispondesse, che non facesse nessun discorso, non sarebbe un uomo. Nemmeno, addirittura, un animale. Sarebbe una pianta. Non è quella di Aristotele un’asserzione qualsiasi. E’ proprio su di essa che si fonda il principio di contraddizione, un pilastro della logica, il più forte di tutti i princìpi:

Ora, alcuni ritengono per ignoranza, che anche questo principio [di contraddizione] debba essere dimostrato: infatti, è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare. […] Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l’impossibilità in parola, per via di confutazione: a patto però che, l’avversario dica qualcosa. Se invece l’avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare un’argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto, appunto non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile a una pianta”.

Sembrerebbe quindi, che l’ingresso nel mondo del linguaggio sia qualche cosa che l’uomo non possa revocare.
Ma, al contrario, Auschwitz, come sostiene Agamben, è “la confutazione radicale di ogni principio di comunicazione obbligatoria” .
Ad Auschwitz, il problema dell’incomunicabilità e della mancata comprensione, si pone in modi drammatici. Non è solo il problema della lingua straniera che, nel campo, per esempio, poneva in grosse difficoltà italiani, greci, francesi, slavi . La vita del lager si svolgeva in una “situazione sociale” priva di un centro tematico, da cui si potessero sviluppare delle relazioni. I pochi segnali erano di minaccia, di avvertimento. Oppure di difesa. I pochi ed effimeri atti di solidarietà creavano solo delle complicità momentanee . Secondo Amery, per gli intellettuali, poi, questa situazione era ancora più difficile da sostenere. Infatti, l’intellettuale era meno adattabile degli altri alla lingua del lager, fatta di ordini, imprecazioni, interiezioni . Prima di tutto, come accennato c’era il problema della diversità delle lingue. Le nazioni rappresentate erano circa 40. Di conseguenza, si era sviluppato un rudimentale codice linguistico . La lingua del Lager era composta da un ristrettissimo numero di segnali, un misto d’esclamazioni tedesche, tratte da ben definiti sottocodici linguistici tedeschi: quello burocratico, militare, carcerario, politico (del partito nazionalsocialista) e altre provenienti dal gruppo nazionale maggioritario, in particolare il polacco, nucleo dominante tra i prigionieri e anche tra i Kapos . Spesso veniva adattato il polacco al tedesco “previ adattamenti morfologici ottenuti mediante l’uso di diminutivi tipici dello slavo, di desinenze di genere e di numero, e di sintagmi multilinguistici” . La parola umana non affiorava . Racconta Levi che i primi giorni di Lager sono impressi nella sua memoria come un “film in grigio e nero, sonoro, ma non parlato” .
I prigionieri imparavano poche decine di parole. Non attraverso la traduzione, ma per imitazione acustica, secondo “lo schema impulso-reazione ” .
“Queste voci straniere - racconta Levi - erano incise nella nostra memoria come su un nastro magnetico, vuoto, bianco. Non ci ha aiutati a ricordare il loro senso, perché, per noi, non ne avevano […] Erano frammenti strappati all’indistinto: frutto di uno sforzo inutile ed inconscio di ritagliare un senso entro l’insensato. Erano l’equivalente mentale del nostro bisogno di nutrimento, che ci spingeva a cercare le bucce di patate nei dintorni delle cucine: poco più del niente, meglio del niente. Anche il cervello sottoalimentato soffre di una fame specifica” . L’addestramento, conferma Levi, avveniva con lo stesso sistema usato con i cani di Pavlov . Nell’arcipelago dei Lager tedeschi, ricorda Levi si era delineato un linguaggio di settore (oggi diremmo un sottocodice linguistico), il Lagerjargon (gergo del lager), a sua volta suddiviso in tanti sottogerghi, quanti erano i lager. Al ritorno in libertà, lo stesso Levi ha dovuto constatare una sorta di parallelismo (potremmo quasi dire una “equivalenza semantica”) con i gerghi dei gulag sovietici. “Ognuno di questi – ci dice Levi - trova il suo esatto riscontro nel Lagerjargon. La traduzione tedesca dell’Arcipelago Gulag […] non deve aver presentato molte difficoltà, o, se sì, solo terminologiche” . Per esempio alla parola del gergo del lager “prominent” corrisponde esattamente, nel gergo del gulag “Pridurki”. Entrambi indicano i prigionieri che hanno fatto carriera, una “componente indispensabile nella sociologia dei campi” . Un termine comune a tutti i Lager era “Muselmann”. Il prigioniero esausto estenuato, rassegnato, prossimo alla morte. Nel lager di Ravensbrück, l’unico femminile, lo stesso concetto veniva espresso con due termini quasi omofoni: “Schmutzstück” (immondizia) e Schmuckstück” (gioiello) . Il verbo usato per “mangiare” era “fressen” che nel tedesco viene adoperato con riferimento agli animali . Per “vattene” si usava l’espressione “haub’ab”, dal verbo “abhauen”, che equivaleva ad “andare all’inferno, levarsi di torno” . Gli stessi prigionieri, nelle loro scarne relazioni sociali usavano queste espressioni, cui si abituavano con grande sforzo . Ben presto lo stesso Levi si accorse che il tedesco parlato nel Lager, “scheletrico, urlato, costellato di oscenità e imprecazioni” aveva poco a che fare con il tedesco melodioso di Heine, ma che era una variante di quella che più tardi Klemperer avrebbe chiamato “Lingua Tertii Imperii” . Il lessico era ridotto ai comandi e allo stretto necessario per sopravvivere, mangiare, dormire, bisogni corporali . La lingua del Lager era “diretta, lapidaria, volgare”. Non esistevano parole per esprimere sentimenti. Serviva a indicare, a designare. Non permetteva di descrivere, spiegare, motivare, permettere, promettere. Le parole gentili erano rare. Gli argomenti vertevano sul mangiare, sulla malattie, sulle cose necessarie alla sopravvivenza. Insomma i prigionieri restavano quasi sempre muti. Usavano il linguaggio solo in condizioni di bisogno e di emergenza . Del resto, come ricorda Levi non esistevano parole adeguate per esprimere l’immensa sofferenza del dolore, della fame, del freddo, della paura, dell’inverno .
Senza parlare “la lingua ti si secca in pochi giorni e con la lingua il pensiero” . “Pensare” a una poesia, a un concetto filosofico era impossibile . Se, per qualche accidentale associazione veniva in mente un verso di una poesia, da questo non emergeva “alcun riferimento emozionale”. Insomma, “la poesia non trascendeva più la realtà” . Amery cerca disperatamente nel lager una “manifestazione sociale dello spirito”, ma non ci riesce, nemmeno quando incontra, all’interno del campo, un famoso filosofo della Sorbona . Tutti i problemi metafisici, legati all’essere, diventano inconsistenti. Amery non rinuncia, nelle sue memorie, all’occasione per una polemica, con Heidegger, filosofo da lui poco amato e che, per questo motivo, nemmeno nomina direttamente, ma che si limita ad indicare con l’epiteto derisorio “il mago degli alemanni”. Dopo una descrizione caricaturale della differenza ontologica, argomenta che, si poteva “essere affamati”, “essere stanchi”, ma non si poteva “essere” semplicemente . E conclude che in nessun altro posto al mondo, come nel Lager, era impossibile “oltrepassare la realtà” . Nel Lager, lo spirito si dichiarava “incompetente” . Ma, aggiunge Amery, in ciò mostrando di dissentire da Levi , non è che fosse impossibile pensare. Al contrario il pensiero non dava mai riposo, e ad ogni passo giungeva a confini non oltrepassabili . Questa affermazione meriterebbe di essere discussa, perché rischia di essere fraintesa. Infatti, secondo un’interpretazione della ermeneutica contemporanea, lo scontrarsi con limiti del linguaggio (e del pensiero), la ricerca mai soddisfatta della parola giusta, è uno degli aspetti che contraddistingue un’esistenza autentica rispetto ad una inautentica . Ma con ogni probabilità, se pensiamo a quanto poco prima affermato a proposito della impossibilità di “essere” nel Lager, questa interpretazione viene a cadere. E’ lo stesso Amery a fornirci una chiave interpretativa. “Nel Lager uscimmo denudati, derubati, svuotati, disorientati e ci volle molto tempo, prima che riprendessimo il linguaggio quotidiano della libertà . Sartre, aveva impiegato trenta anni per sbarazzarsi del tradizionale idealismo filosofico . “Noi”, commenta Amery, “abbiamo fatto molto più in fretta” . Il “verbo”, conclude Amery, perisce ogni qual volta la realtà pretende di essere una totalità .

La lingua e la morte nel Lager
In una conferenza su “l’Essenza del linguaggio”, Martin Heidegger individuava un rapporto costitutivo che lega la morte al linguaggio. L’uomo può fare l’esperienza della morte, l’animale no. Allo stesso modo, l’uomo può parlare, l’animale no:

I mortali sono coloro che possono esperire la morte come morte. L’animale non lo può. Ma anche il parlare è precluso all’animale. Come per un lampo improvviso balza allo sguardo il rapporto costitutivo tra morte e linguaggio, ma ancora non lo si è tematizzato. Esso ci può tuttavia suggerire qualcosa sul modo con cui l’essenza del linguaggio ci chiama a sé e ci tiene presso di sé, nel caso risulti che anche la morte fa parte di ciò che ci esige per sé .

A sua volta, Primo Levi, senza probabilmente conoscere questo passo di Heidegger, arriva per altre vie, sicuramente meno teoriche e più pratiche, a una conclusione che, a prima vista (ma solo a prima vista), presenta molte somiglianze con la considerazione di Heidegger sulla relazione che lega uomo, linguaggio e morte. Ma, come tenteremo di mostrare, la somiglianza è affatto ingannevole. Non esiste, come vedremo, alcuna relazione tra “i mortali, “la morte” e il “linguaggio” come li intende Heidegger nella sua Conferenza, da un lato, e i prigionieri, la morte e la lingua del Lager, dall’altro.
Levi si era accorto, fin dai primi giorni di prigionia, che per lui e per i suoi compagni, c’era uno strettissimo rapporto tra la conoscenza della lingua del lager e la speranza di evitare la morte. La lingua tedesca era uno spartiacque per la stessa sopravvivenza. Gli ordini venivano impartiti dalle SS, una prima volta con voce tranquilla, poi con voce alta e rabbiosa. Siccome tutti erano terrorizzati e nessuno capiva il tedesco, si passava ai pugni . A Mauthausen, il nerbo di gomma, veniva chiamato «der Dolmetscher» (l’interprete) perché “si faceva capire da tutti” . Levi sapeva solo poche parole di tedesco, ma si rese conto ben presto che il suo scarso “tesoro di parole” era veramente un tesoro di parole” . Decide di prendere lezione di tedesco da un prigioniero alsaziano, pagando con l’unica moneta corrente: “il pane”. E mai pane - conclude - fu meglio speso.
Ci fu, nel Lager, un caso, estremo, di un bambino, di circa tre anni, che non sapeva parlare. Nel minuscolo avambraccio recava, come gli altri prigionieri, il marchio di Auschwitz. Non aveva mai avuto una madre. Non aveva mai avuto una lingua madre. Moriva poche settimane dopo la liberazione del campo, “libero, ma non redento”. Forse era nato proprio ad Auschwitz. Moriva senza aver mai visto un albero. Senza un nome. Senza un ricordo. “Il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva”. Ma moriva senza, forse, aver mai detto, o capito una parola . Nulla resta di lui. Non può testimoniare. Quello che di lui si sa è dovuto alle parole di Primo Levi, che lo ricorda con il nome di Hurbinek. Hurbinek non può testimoniare perché non ha lingua. “Testimonia” attraverso le parole di Levi. Ma Levi sa bene , come fa notare Agamben, che “nemmeno il superstite può testimoniare integralmente” . “La traccia che la lingua crede di trascrivere dell’intestimoniato, non è la sua parola. E’ la parola della lingua, quella che nasce dove la lingua non sta più nel principio, decade da esso per – semplicemente - testimoniare «non era luce, ma era per testimoniare della luce»” .
In ogni organizzazione sociale e, a maggior ragione, in ogni istituzione totale, la sincronizzazione e la coordinazione del tempo stabilisce degli obblighi esterni. La sua stessa scansione, viene utilizzata come strumento per l’esercizio del dominio.
Nel Lager c’era qualche cosa di più. Il Lager penetrava profondamente non solo nel senso spaziale, ma anche in quello temporale di ciascun essere umano. Il Lager non si contentava di dominare i corpi, cancellando il collegamento fra passato e futuro. Con la sua legge costringeva gli individui, nei movimenti più interni della coscienza, a vivere solamente l’istante presente .
Non c’erano orologi nel Lager . Il tempo veniva misurato dalla luce del sole, dalle marce forzate di trasferimento dal campo al cantiere, dalla giornata di lavoro (fino a 11 ore ), dai due estenuanti appelli quotidiani . I prigionieri ricorrevano, quasi per istinto a una strategia di difesa. Si rappresentavano un sistema di riferimento mentale in intervalli “uguali che tuttavia scorrevano a diverse velocità” . Robert Antelme considerava il tempo passato come “tempo guadagnato” e lo scandiva in periodi di differente lunghezza che trascorrevano con diverse velocità . Non molto diversamente, Primo Levi si rappresentava un tempo che, istante per istante, doveva essere “perforato” (oggi diremmo “obliterato”) per dimenticarlo e metterlo alle spalle . Ma sia la durata esterna del tempo, sia quella interna potevano, in qualsiasi momento essere interrotte bruscamente dall’irruzione della morte. Non c’era né un prima, né un dopo, ma solo un “adesso“ e un “non adesso”. Dominava un tema esclusivo: quello della morte. Il pericolo della morte “scompagina” il flusso del tempo . La morte era sempre presente. Bastava un litigio, una piccola disobbedienza, un ordine capito male. Le selezioni per la camera a gas erano ricorrenti. La morte era sempre in agguato. Dietro l’angolo. Si viveva in mezzo a mucchi di cadaveri, e non ci si faceva più caso. Il prigioniero del Lager non viveva porta a porta, ma addirittura nella stessa stanza con la morte . Anche il soldato in guerra vive in stretto contatto con la morte. Ma il paragone, secondo Amery, non regge. In entrambi i casi, è vero, la vita non vale granché. Ma al soldato lo Stato ordinava di resistere, non di morire. Il soldato dava in sacrificio la propria vita e moriva la morte dell’eroe: il prigioniero quella delle bestie da macello. E il soldato non era solo il bersaglio, ma anche il veicolo della morte . Crollava così ogni concezione “estetica” della morte. Ad Auschwitz non c’era spazio per pensare la morte nella sua forma letteraria, filosofica, religiosa, musicale. Si andava alla morte accompagnati, non “dalla musica del Tristano”, ma solo dalle “urla delle SS e dei Kapos” . Nel Lager ogni morte veniva registrata con la formula Abgang durch Tod (abbandono [del campo] causa decesso). Chi, specie se intellettuale, voleva stabilire un rapporto diverso con la morte si trovava di fronte alla realtà del lager. Secondo Amery, “al pari del suo compagno non spirituale, anche il prigioniero intellettuale si occupava non della morte, ma del morire” . In particolare di come si poteva o si doveva morire: se per gas, per sfinimento, se con una iniezione di acido fenico, con una botta in testa, con un colpo di arma da fuoco. O se suicidarsi, correndo verso il filo elettrico. “Il morire”, secondo Amery, che, qui, con ogni probabilità rifà, polemicamente, il verso ad Heidegger , “era onnipresente, ma si sottraeva” . In polemica con Amery e, forse, in difesa di Heidegger, Agamben osserva, che, sì, nel campo era impossibile “pensare la morte”, ma non tanto perché il pensiero dei modi di morire la rendesse superflua, quanto perché la morte era stata resa, come ha fatto osservare anche Levi , “triviale, burocratica e quotidiana” .
Tutti gli storici sono concordi nell’affermare che “i casi di suicidio durante la prigionia nel Lager erano rari” . Non possediamo statistiche ufficiali o attendibili . Ma la convergenza degli storici su questo punto è indubbia, anche se, in proposito esiste il parere discorde di Bruno Bettelheim. Quest’ultimo, pur riconoscendo la scarsità del numero di suicidi veri e propri, ha preso in senso molto ampio il concetto di suicidio e ha definito l’arrendevolezza con la quale gli internati si lasciavano condurre alle camere a gas senza resistenza: «una forma di suicidio che non richiedeva quell’energia che è altrimenti necessaria per decidere il suicidio e programmarlo»” . Si tratta di un parere isolato, anche se autorevole, da parte di uno studioso che aveva l’esperienza diretta dei campi di concentramento , maturata però in anni precedenti l’avvio della “soluzione finale” . Si può obbiettare con Langbein e con Amery, che non era necessario un dispendio di energia: il filo dell’alta tensione che circondava il campo era a portata di mano ed “era in fondo una soluzione buona e abbastanza sicura” .
Quindi i motivi dello scarso numero di suicidi, come fanno notare la gran parte degli storici e dei testimoni, sono di altra natura. Primo Levi tenta una spiegazione che appare convincente. “Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato, perché, come gli animali, eravamo ristretti al momento presente” . Ma, prima di tutto, osserva Levi, il suicidio è degli uomini e non degli animali. Poi c’era da pensare alla fame, alla fatica, al freddo, alla sete, a evitare i colpi dei Kapos. Mancava la concentrazione per occuparsi della morte . Infine, secondo Levi, nella maggior parte dei casi, il suicidio nasce da un senso di colpa che nessuna punizione è riuscita ad attenuare, ma siccome, con l’internamento, si stava già scontando la punizione non c’era nessuna colpa ulteriore da espiare . Amery dà una spiegazione più filosofica: nel campo mancava l’angoscia della morte. “Quando si è liberi è possibile pensare alla morte senza per forza pensare al morire, senza essere angosciati dal morire. In una condizione di libertà la morte a livello spirituale può, almeno in linea di principio, essere distinta dal morire: in senso sociale, proiettando su essa considerazioni sulla famiglia che rimane, sul lavoro che si lascia, e in senso filosofico attraverso lo sforzo di avver¬tire nell’esistere un alito del Nulla” . Per il prigioniero, a differenza dell’uomo libero, la morte non possedeva alcun “aculeo che facesse male, che lo spingesse a riflettere” . Il prigioniero del campo, in altre parole, aveva sì conosciuto il terrore di fronte a tanti modi di avere paura, ma non l’angoscia della morte. In sintonia con Amery, Langbein osserva che “dove il confronto con la morte faceva parte della quotidianità, cercare la morte perdeva tutto l’aspetto di eccezionalità che altrimenti avrebbe potuto esercitare una sua seduzione” . Zywulska, membro del Sonderkommando di Birkenau, la squadra speciale composta dagli internati addetti alle camere a gas, vuole continuare a vivere per potersi vendicare . Benedikt Kautsky non si suicida per orgoglio . Secondo lo stesso Langbein il prigioniero vuole sopravvivere per poter testimoniare . Dello stesso parere Primo Levi che a distanza di anni rivendicherà, in un’intervista, di essere in pace con se stesso proprio per aver testimoniato, per aver avuto “occhi e orecchie ben aperti tanto da poter raccontare in modo veridico, preciso, quello che ho visto” . I casi di suicidio durante la prigionia erano rari. E’ dopo la prigionia, al contrario, che ci sono stati “molti casi di suicidio” . L’ora della liberazione non è stata “lieta e spensierata”. Dopo essersi voltati a guardare tutto quello che si era dimenticato e ritenuto perduto, dopo essere tornati uomini “responsabili” irrompeva “sempre un momento critico che coincideva con un’ondata di ripensamento e di depressione” .
Voltarsi indietro, testimoniare significa accollarsi un peso insostenibile che può finire con lo schiacciare.
Un anno dopo aver pubblicato queste riflessioni, l’11 aprile 1987, Primo Levi si toglieva la vita.
Nessuno, con certezza, può coglierne le ragioni. Le motivazioni profonde di un suicidio sono sempre personali, misteriose. In qualche misura, indicibili.
Ma si può pensare che, forse, neanche Primo Levi, che pure aveva mostrato una gigantesca forza, nell’affrontare le terribili prove imposte dalla vita, ce l’avesse fatta a resistere. Dopo essersi “voltato indietro” e dopo aver reso testimonianza, forse, un peso non più sostenibile ha finito con lo schiacciarlo.
Proprio lui, che pure, appena un anno prima, nel ricordare Amery, come “il filosofo suicida e, teorico del suicidio” aveva ammonito che “gli scopi della vita sono la difesa ottima contro la morte: non solo nel Lager” . Jean Amery si era già suicidato nove anni prima, nel 1978. Bruno Bettelheim si toglierà la vita tre anni dopo nel 1990.
Il Lager continua a uccidere.

Il Muselmann e la morte negata
Tutti i musulmani, racconta, Levi, hanno la stessa storia. Entrati nel campo sono stati sopraffatti. Non si sono adeguati in tempo. Non hanno imparato il tedesco e non sono stati, così, in grado di discernere nulla nel groviglio dei pericoli e dei divieti del Lager. Non hanno cercato di procurarsi razioni alimentari extra , né relazioni personali indispensabili alla sopravvivenza. Nel giro di poche settimane il loro corpo e la loro mente è già in sfacelo, e nulla li potrà salvare dalla morte per gas o per deperimento . “La loro vita è breve, ma il loro numero è sterminato. Sono loro i Musulmänner, i sommersi il nerbo del campo […]. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla. Essi - continua Levi - popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del mondo, sceglierei questa immagine che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero” .
Sono il “nerbo del campo” . Ma quasi nessuno ne vuole parlare. I compagni gli voltano le spalle. Temono di vedere in loro l’immagine di quello che potranno divenire essi stessi .
Neppure dopo molti anni i superstiti ne vogliono parlare .
Amery non fa eccezione, ma è uno dei pochi che ha l’onestà intellettuale di confessarlo: il Muselmann “non possedeva più un ambito di consapevolezza […] Era un cadavere ambulante, un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia; dobbiamo, per quanto dolorosa ci appaia la scelta, escluderlo dalle nostre considerazioni” . Il pittore Aldo Carpi , internato a Gusen, per cercare di sopravvivere dipingeva quadri per i tedeschi. Ma deve lamentare che “nessuno vuole scene e figure del lager, nessuno vuol vedere il Muselmann” . Sono i “veri paria del Lager” . Sono “il bersaglio preferito delle battute grossolane” .
“Gli anziani” del Lager si rendevano presto conto se un nuovo arrivato, era predestinato a diventare un Muselmann. Nel suo viso si leggeva la morte prossima. Lo si capiva nei primi 8 -10 giorni . I primi sintomi erano l’estrema magrezza, riduzione dei muscoli, occhi incavati nelle orbite, zigomi sporgenti, guance incavate, mascelle prominenti. Le membra del corpo diventate ossa ricoperte da pelle floscia di colore grigio giallognolo . La loro morte individuale non lasciava un vuoto: infatti nella serie ognuno è di troppo al proprio vicino e il posto, che lascia libero morendo, viene immediatamente occupato da un altro . Nel campo, la morte può colpire chiunque in qualsiasi momento. Riprendendo, con tutta evidenza, il concetto di doppia massa, di Elias Canetti , Sofsky sostiene che tutta la società del Lager era un’«entità a termine che la morte di massa scindeva in una massa doppia» : quella, crescente dei morti e quella dei sopravvissuti destinati, anche loro, un giorno a far parte della massa dei cadaveri . Quando sono prossimi alla morte, i Musulmänner subiscono, da parte dei loro compagni, azioni di sciacallaggio e vengono derubati delle coperte o delle scarpe. Tanto non ne hanno “più bisogno” .
L’origine del termine Muselmann è ignota. Forse fa riferimento al presunto fatalismo dei popoli di fede islamica, o ai movimenti tipici della preghiera araba.
In ogni caso – fa notare Agamben – è certo che, con una sorte di feroce autoironia, gli ebrei sanno che ad Auschwitz non moriranno come ebrei .
Il Muselmann si trova a metà strada tra la vita e la morte. Il potere assoluto, prima di uccidere, adotta una politica che ha lo scopo di degradare e trasformare la condizione umana. La sua figura esteriore esprime compiutamente il processo di disumanizzazione in corso . Pensavano a qualche cosa i Musulmänner? E a che cosa pensavano? Si è interpretato il loro stato interiore come una perdita di volontà, di distruzione dello spirito vitale. Ma sarebbe fuorviante identificare tale rassegnazione con quella che coglie il moribondo . Il loro destino non ha nulla a che fare con quello che significa morire. Il Muselmann si spengeva dopo un lungo processo di degrado. Moriva come un orologio quando si ferma .
Un quadro critico della loro condizione, tracciato da Wladyslaw Feikel, medico con lunga esperienza di Auschwitz, riconduce a una malattia di denutrizione . La condizione del Muselmann, però, non è spiegabile con categorie nosologiche . Non si trattava di una malattia vera e propria . Le sue trasformazioni psichiche e fisiche erano intrecciate fra di loro e portavano alla distruzione delle relazioni sociali e “all’annientamento simultaneo della socialità, della vita activa e della vita mentalis” . Il loro agire sprofondava sotto la soglia della vita animale, e si riduceva solo alla reazione istintiva, quando qualcuno li provocava.
L’agire, secondo Hannah Arendt, è il medium dell’identità sociale e individuale . Quando l’agire viene meno, si atrofizza la vita stessa. Con le proprie azioni l’uomo “manifesta se stesso”, “lo comunica ad altri”, e “dà vita a un nuovo inizio”. Ma azione e discorso sono connessi strettamente . Il Muselmann non agisce, e nemmeno parla. La sua flebile comunicazione consiste nella “prossimità corporea” che prende il “posto del linguaggio” .
Senza azione e senza discorso, aggiunge Arendt, si hanno “non uomini che agiscono, ma robot che realizzerebbero ciò che, umanamente parlando, rimarrebbe incomprensibile. L’azione senza discorso non sarebbe più azione perché non avrebbe più un attore, e l’attore, colui che compie gli atti, è possibile solo se, nello stesso tempo, sa pronunciare delle parole” .
Con il Muselmann il potere nazista fonda un terzo regno, tra la vita e la morte e “attesta il completo trionfo sull’umanità dell’uomo. […] Il Muselmann è la figura guida della morte di massa, una morte provocata dalla fame, dall’abbandono, dall’estinzione dell’anima” . Attraverso la figura del Muselmann il potere nazista, voleva contestare l’appartenenza alla stessa specie umana. “Ci sentivamo contestati - dirà Antelme - come uomini”, come individui della specie […]. La negazione della qualità d’uomo provoca una rivendicazione quasi biologica di appartenenza alla specie umana” . Primo Levi parla di non-umana esperienza: “Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi. E dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai te¬deschi disfatti. E uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere” . Per Agamben il musulmano segna la “soglia in cui l’uomo trapassa in non-uomo e la diagnosi clinica in analisi antropologica” . Non solo, ma nella figura del musulmano transitano senza soluzione di continuità, l’umanità e la non-umanità, la vita vegetativa e quella di relazione, la fisiologia e l’etica, la politica e la medicina, la vita e la morte. Per questo il suo “terzo regno”, tra l’uomo e l’animale, è “la cifra perfetta del campo, del non-luogo dove tutte le barriere disciplinari vanno in rovina, tutti gli argini tracimano” . Insomma Auschwitz è “il luogo in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano” . La loro morte non può essere chiamata morte. Addirittura, per Agamben, “le SS avevano ragione a chiamare Figuren i cadaveri” . Infatti, dove “la morte non può essere chiamata morte, nemmeno i cadaveri possono essere chiamati cadaveri” .
Sulla degradazione della morte nel campo così interviene Adorno, in polemica con la preghiera di Rilke che chiede a Dio di dare una morte propria:

Ciò che i nazionalsocialisti hanno perpetrato su milioni di uomini, l’ispezione dei vivi come se fossero già morti, e poi la produzione di massa e la riduzione dei costi della morte, ha proiettato in anticipo la sua ombra su quelli che si fanno ispirare al riso dai cadave¬ri. […] La famosa preghiera di Rilke in cui si chiede a Dio di dare a ciascuno la sua «morte personale», non è che un miserevole inganno, con cui si cerca di nascondere il fatto che ormai gli uomini crepano e basta .

In un'altra occasione Adorno noterà che nei campi di concentramento è stato “cancellata la linea di demarcazione tra la vita e la morte” . E aggiungerà che il lager ha creato “uno stato intermedio, scheletri viventi e individui in decomposizione, vittime a cui il suicidio, la risata di Satana sopra la speranza di eliminare la morte, non riesce” .
Da una prospettiva diversa, con la “leggerezza“ che lo contraddistingue, interviene Vladimir Jankélévitch, il quale finisce con il convergere sulla sentenza di Heidegger di Essere e tempo, che la morte è un fenomeno della vita . A questa conclusione, perviene attraverso un percorso che parte da una relazione tra morte e vita legate da un nesso dialettico . Prende le mosse da un ragionamento di Bergson, secondo il quale l’occhio è sì l’organo della vista, ma in un altro senso è di ostacolo alla vista, e avere gli occhi significa vedere e al tempo stesso non vedere . Allo stesso modo per analogia, la morte, limita e pone fine alla vita, ma senza la morte l’uomo non sarebbe uomo. Si potrebbe dire che “senza la morte l’uomo non sarebbe un uomo, che proprio la presenza latente della morte fa le grandi esistenze conferendo loro il fervore, l’ardore, il tono specifici. Si può dire, quindi, che ciò che non muore non vive” .
Privare della morte, quindi, vuol dire, anche, privare della vita.

Con un po’ di ritegno Agamben cita Heidegger e il passo di un suo discorso pronunciato a Brema nel 1949, i cui il filosofo tedesco stabilisce una relazione tra la tecnica e la fabbricazione di cadaveri nei campi di sterminio:

Muoiono? Decedono. Vengono eliminati. Muoiono? Diventano pezzi del magazzino della fabbricazione di cadaveri. Muoiono? Vengono liquidati impercettibilmente nei campi di sterminio…. Ma morire (sterben) significa: sopportare la morte nel proprio essere. Poter morire significa: potere questa decisa sopportazione. E noi lo possiamo solo se il nostro essere può l’essere della morte… Dappertutto l’immensa miseria d’innumerevoli, atroci morte non morte (ungestorberner Tode), e, tuttavia, l’essenza della morte è sbarrata all’uomo.

Già in Essere e Tempo, Heidegger a proposito della morte, aveva detto che questa é la “fine” dell’essere-nel-mondo:

Nell’Esserci, finché c’è, manca sempre ancora qualcosa che esso può essere e sarà. Ma di questo qualcosa che manca fa parte la stessa «fine». La «fine» dell’essere-nel-mondo è la morte [sottolineatura mia]. Questa fine, rientrando nel poter-essere, cioè nell’esistenza, delimita e determina la sempre possibile totalità dell’Esserci.

Ma, in quale senso la morte deve essere intesa come la fine dell’esserci?

Finire significa prima di tutto cessare, ma in un senso che comporta particolari distinzioni ontologiche. La pioggia cessa. Non è più presente. La via cessa. Questo cessare non fa scomparire la via, ma la determina nella sua consistenza di semplice presenza. Finire in quanto cessare può quindi significare: dissolversi nella non presenza o raggiungere la totale presenza solo con la fine. Finire nel secondo senso, può di nuovo o significare l’esser presente come non ultimato (una strada che si interrompe perché incompiuta) oppure costituire proprio l’«essere ultimato di una cosa presente come tale».

Ma, ciò che pretende di essere compiuto, deve essere ultimato:

Per contro ciò che pretende essere compiuto deve essere ultimato [sottolineatura mia]. Il compimento è un modo che si fonda nell’«essere ultimato». Ma questo da parte sua, è possibile solo come determinazione di una semplice presenza o di un utilizzabile. […] Nella morte l’Esserci non è né compiuto né semplicemente dissolto né, tanto meno, ultimato e di-sponibile. L’Esserci, allo stesso modo che, finché è, è già costantemente il suo “non-ancora”. È anche già sempre la sua morte. Il finire proprio della morte non significa affatto un essere alla fine dell’Esserci, ma un essere-per-la-fine da parte di questo ente. La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. «L’uomo appena nato, è già abbastanza vecchio per morire».

Ma la morte è un fenomeno della vita. Infatti:

Nel senso più largo la morte è un fenomeno della vita [sottolineatura mia]. Il vivere deve essere inteso come un modo di essere cui appartiene l’essere-nel-mondo. […] La fine del semplice vivente è stata definita come cessare di vivere. Poiché anche l’Esserci «ha» la sua morte fisiologica quale essere vivente […], anch’esso può cessare, senza tuttavia che ciò significhi la morte in senso autentico. D’altra parte, poiché dell’Esserci, come tale, non si può dire che cessi semplicemente di vivere, indicheremo questo fenomeno intermedio col termine decesso. Morire varrà invece come termine per indicare il modo di essere in cui l’Esserci è per-la-sua-morte.

A questo punto possiamo tentare di concludere che la morte prodotta indu-strialmente è una “morte non morte” (ungestorberner Tode) e che, quindi, il Muselmann non muore, ma decede. Non solo, ma il Muselmann non è nemmemo un “mortale”. E infatti:

[mortali sono chiamati così] perché possono morire, [dove morire significa] essere capace di conoscere [vermögen] la morte come morte.

Secondo Ugazio, per Heidegger, “proprio nella morte, l’esser-nel-mondo trova un limite, raggiunge una sorta di totalità, oltra la quale, per così dire, non può andare.” Ma “la morte di cui parla non è evidentemente il giungere alla fine di un ente semplicemente presente, ossia non è il decesso fisico” .
La morte è un “non-ancora”, ma, spiega Ugazio, riprendendo due esempi dello stesso Heidegger, questo “non-ancora” non ha lo stesso senso del “non-ancora” del quarto di luna rispetto alla luna piena, o del frutto immaturo rispetto al frutto maturo. Non esprime una “mancanza”, ma “un’imminenza che sovrasta” (Bevorstand): questo nel senso che fin dall’inizio la morte è già sempre presso l’Esserci, appartiene alla sua struttura ontologico-esistenziale”, ne è ”l’estrema possibilità” .
Insomma la morte viene chiamata in causa non come l’accadere di qualcosa puntuale, di qualche cosa come la fine di un ente, ma come un costante essere per essa .
Quando Heidegger dice che “l’uomo è abbastanza vecchio per morire” , vuol dire che la morte fa parte costitutivamente del suo essere. L’esserci in quanto essere-per-la-morte è già sempre morente e non muore con il decesso fisico.
Agamben, fa notare che in Essere e Tempo, ”l’essere per la morte” è il luogo di un’esperienza decisiva che “esprime forse l’intenzione ultima dell’etica di Heidegger” . Per Heidegger, alla luce della conferenza di Brema, Auschwitz è il luogo in cui è “impossibile fare esperienza della morte” .
Qui Agamben scorge una possibile contraddizione in Heidegger, sulla base del principio hölderliniano, che Heidegger stesso ripete più volte: «dove c’è il pericolo, là cresce ciò che salva». Ma se così fosse, proprio nella situazione estrema del campo, si dovrebbe trovare “la possibilità di riscatto”. Allora, secondo Agamben, “la ragione per cui Auschwitz è escluso dall’esperienza della morte deve essere un’altra”, tale da mettere in crisi “la base stessa dell’etica heideggeriana”. Il Lager è proprio il luogo in cui non è possibile la distinzione fra proprio e improprio. L’improprio si è fatto integralmente carico del proprio e gli uomini “vivono in ogni istante fattiziamente per la loro morte” .
Pertanto ad Auschwitz non è possibile distinguere tra morte e decesso.
Il Muselmann, quello che Levi aveva chiamato il nerbo del campo e che Sofsky considera l’espressione più rappresentativa dello sterminio di massa, è colui per il quale la vita, senza la parola e senza l’azione, non è vita, la morte non è morte ma è decesso, o meglio fabbricazione di cadaveri.
Con la sua figura, il Muselmann revoca e mette in “questione la stessa umanità dell’uomo ”.

Epilogo
Che cosa resta, allora, dell’uomo e della sua morte oltraggiata, reificata, cancellata?
Che cosa resta della lingua e, in particolare, della lingua materna offesa, violata, annientata?
Rispondere a queste due domande, intrecciate tra di loro, così come lo sono linguaggio e morte, non è possibile.
Ma dobbiamo rispondere.
Come è stato detto, non possiamo, ma dobbiamo .
Forse, è proprio in questo iato tra non potere e dovere, in questo salto nel vuoto, in questo abisso, in questo silenzio, che si costituisce la responsabilità dell’uomo e si misura la speranza di riguadagnare, insieme al linguaggio e alla morte, i tratti originari dell’umanità perduta, revocata, messa in questione.
Gunther Anders scrive di una «vergogna prometeica» a proposito del nostro senso di impotenza per trovare una spiegazione. Primo Levi, fa riferimento a una «vergogna del mondo» ontologica cioè quasi a un peccato originale, ma di natura laica che nasce dalla coscienza del carattere umano dell’offesa. Hannah Arendt, parla in un primo tempo di male radicale . Poi di banalità del male e spiega in una lettera a Scholem perché ha cambiato idea: “il male – scrive – non è mai radicale, ma soltanto estremo. […] Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. […] Solo il bene è profondo e può essere radicale” . In un’intervista televisiva degli anni ’60 confessa tutto il proprio orrore: “non sarebbe mai dovuto succedere. […] Ad Auschwitz è successo qualcosa che noi tutti non siamo preparati a comprendere” . Interrogata su che cosa fosse rimasto dopo la catastrofe risponde, senza esitare: “Che cosa è rimasto? La lingua. […] Non è la lingua tedesca ad essere impazzita” .
Trenta anni dopo Derrida polemizza con Arendt e ne “decostruisce” l’intervista. Per lui, al contrario, è stata proprio la lingua tedesca, che per Hannah Arendt è la lingua madre, a impazzire. Come una madre che impazzisce in casa, si è resa, quindi, responsabile e colpevole del disastro, non vittima .
Ma ben presto, contraddicendosi, ammetterà che “l’esperienza del nazismo è un crimine contro la lingua tedesca” .
E, con riferimento a Celan, considerato il più grande poeta di lingua tedesca del Novecento, aggiungerà che “in ogni istante ha dovuto vivere la morte della lingua” ma che “l’atto poetico costituisce una sorta di resurrezione” .
Sul rapporto tra la morte e la lingua tedesca, la sua lingua materna, si era così pronunciato lo stesso Celan: “solo nella lingua materna si può esprimere la propria verità. Nella lingua straniera il poeta mente” . Ma “la lingua – aggiungeva – dovette passare attraverso un ammutolire orrendo, passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte. Essa passò […] Passò e le fu dato di riuscire alla luce, «arricchita» da tutto questo” .
Per spiegare questo passaggio e l’arricchimento che, grazie al lavoro poetico di Celan, ne è derivato, Jean Bollack parla di tecnica della ri-formazione (Um-formung) in grado di di rifare la lingua partendo dal suo interno (“von innen her”) .
Dal canto suo Adorno, nell’immediato dopoguerra, suscita scandalo dichiarando, a caldo, che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie” . Ma in seguito chiarisce meglio la sua espressione travisata da una lettura superficiale e letterale: non pochi critici l’avevano considerata quasi una prescrizione formale indirizzata, prima di tutto, a Paul Celan.
Lo fa indicando come esempio di poesia possibile dopo Auschwitz, proprio quella di Celan, tra tutti i poeti del dopoguerra, come fa notare Peter Szondi , quello che Adorno predilige. La sua poesia è “compenetrata dalla vergogna dell’arte al cospetto del dolore che si sottrae, sia all’esperienza, sia alla sublimazione. Le poesie di Celan vogliono dire col silenzio l’estremo orrore. […] Esse imitano una lingua al di sotto di quella impotente degli uomini, anzi di ogni lingua organica, imitano la morta lingua della pietra e della stella” .
Infine, negli ultimi mesi di vita, lo stesso Adorno, precisa che su Auschwitz dobbiamo non solo parlare, ma anche insegnare. Lo fa in un saggio significativamente intitolato L’educazione dopo Auschwitz mostrando, come, per rispondere all’imperativo “mai più Auschwitz” sia necessario, prima di tutto, una pedagogia che operi nel senso di organizzare l’agire e il pensare in modo che la catastrofe non si ripeta. Non una pedagogia qualsiasi, ma una pedagogia riflessiva in grado di mettere a fuoco il ruolo del soggetto dell’insegnamento, cioè l’insegnante che deve rivolgere su se stesso l’azione pedagogica costringendosi, da docente, a ridiventare a discente.

La costellazione di domande e risposte, così diverse fra loro, spesso, anche, in una stessa persona, appare paradossale e può provocare un senso di smarrimento e di impotenza.
Ma còlte tutte insieme, queste domande e queste risposte, nella loro molteplice contraddittorietà, costituiscono già la promessa di una memoria inestinguibile e, insieme, la speranza della rinascita per la nostra umanità così offesa.
Ci ammoniscono che non è possibile, nemmeno a distanza di tempo, comprendere Auschwitz, storicizzarlo, farsene una ragione.
Infatti, “non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare” .
Tutte queste domande e queste risposte ci dicono che, in fondo, non ci sono regole né schemi, non c’è un fine o una fine, non c’è una strada certa e sicura.
Ma dobbiamo, lo stesso, coltivando la memoria, camminare e andare avanti.
Ci dicono, insomma, che non possiamo, ma dobbiamo.