lunedì 26 febbraio 2007

Nota del curatore a "Testimoniare" di Edoardo Ferrario, a cura di Franco Maria Fontana, Ed. Lithos, Roma 2006




Nota del curatore

Quello che segue più che una nota del curatore, è una confessione.
Ed è una richiesta di perdono.
Questo libro, forse, non doveva nemmeno essere scritto.
Verrebbe quasi da dire che non è un libro.
E’ nato da un accumulo successivo di materiali effimeri destinati ad un uso immediato e al libro eterogenei.
Di sicuro non è stato concepito come tale.
E’ lui, il libro stesso, che è voluto nascere, se così si può dire, quasi di sua iniziativa e che ha spinto per venire alla luce.
Con questo non si vuol dire che sia la prima volta che delle lezioni diano origine a un libro.
Illustri esempi, non solo legittimano, ma addirittura, nobilitano questa particolare genesi.
Dal corso di Linguistica di Saussure, alle lezioni di Estetica di Hegel, da quelle di Arendt su Kant, alle lezioni o conferenze di Heidegger e Freud.
Per non dire, se vogliamo risalire alle origini, dell’intera opera Aristotele.
Ma sarebbe troppo banale limitarsi a parlare, nel nostro caso, di appunti presi a lezione e poi messi in bella copia in un libro.
Del resto, se di appunti si tratta, questi sono stati presi da uno studente atipico durante delle lezioni molto particolari.
Innanzitutto balza agli occhi che, come allievo, sono addirittura più anziano del mio maestro.
Ho assistito a queste lezioni, con alle spalle una laurea giovanile in matematica e una senile in filosofia.
Sono, insomma, uno dei pochi che ha seguito il percorso indicato da Platone nella Repubblica. E questo, anche se fa sorridere, mi conferisce una certa aura e un segno di distinzione.

Ma sono soprattutto le lezioni di Ferrario ad essere molto particolari.
Non rispondono a un’economia predeterminata.
Non partono, come molto spesso accade, anche in molti degli illustri esempi ricordati, da un’ipotesi di studio: un’ipotesi da sviluppare con una catena di ragionamenti fino a concludersi nella conquista di una tesi compiuta, di una verità dimostrata.
Non seguono, in altre parole, il metodo abituale nelle scienze esatte, forse, troppe volte da queste mutuato e trasferito di peso anche in altri domini del sapere.
Insomma, le lezioni di Ferrario non hanno un andamento lineare.
Ma, in fondo, non hanno, nemmeno, quello, secondo me, più fecondo, a spirale, che consiste nel girare intorno a un nucleo, senza però tornare indietro, ma guadagnando via via nuove posizioni.
No. Questo criterio risponderebbe, in fondo, pur sempre a un principio di economia.
Ferrario, invece, si limita a mostrare una serie di temi eterni e universali quali il perdono, la testimonianza, la pace, l’ospitalità, la guerra, la giustizia, la colpa, la morte, indicandone, con uno sguardo perspicuo, le relazioni, le implicazioni, le interdipendenze, le aporie che le lacerano e le arricchiscono.
E lo fa mettendo in scena un dialogo immaginario tra personaggi di epoche differenti o che, se contemporanei, non si erano mai conosciuti o parlati fra di loro.
Come nel caso di Arendt e Lévinas.

A lezione Ferrario si presenta con una borsa di pelle rigonfia di libri.
La borsa è di quelle vissute, che la sanno lunga. Anche i libri sono vissuti. Ne tira fuori una decina.
Sembra impossibile che una sola borsa, di normali dimensioni, ne possa contenere tanti. Sono zeppi di sottolineature e di segnalibri colorati. Spesso ingialliti. La traccia, forse, di una notte passata a preparare la lezione, ma anche di un lavoro di anni, di una vita di studio.
Con i libri squadernati sulla cattedra, comincia a mettere ordine nelle citazioni.
Perché Ferrario, come Benjamin, ama le citazioni.
In tal modo, inizia a parlare con questi pensatori, ad animarli e a farli dialogare tra di loro.
In un certo senso, fa un po’ da ventriloquo a questi personaggi.
E’, quasi, un demiurgo che, se non crea, almeno resuscita.
La cosa non deve stupire più di tanto. Basta pensare che nessuno degli autori da lui citati, o meglio, ventriloquati è morto del tutto. Tutti si sono guadagnati, da mortali, un posto nella immortalità: da Lévinas a Heidegger e Husserl, da Arendt a Kant fino ad Agostino, Cartesio, Celan, Freud, Kierkegaard ecc.
Qualche volta può accadere che i personaggi rappresentati, se viventi, vengano a mancare proprio durante il corso.
In questi casi la loro morte è l’occasione di una lezione molto particolare.
E’ il caso di Derrida (lezione del 17 ottobre 2004) e di Ricoeur (lezione del 24 maggio 2005).
Viene così impressa un’ulteriore imprevista accelerazione all’attualità della messa in scena, alla sua drammaticità e al coinvolgimento di tutti i partecipanti-spettatori.
Infatti una morte vissuta a lezione non è di quelle che si possono leggere sul giornale.
E’ quasi, la morte di una persona cara, solo pochi giorni prima invitata in aula e di cui si era ascoltata la viva voce. Per ognuno una ferita, un lutto personale.
Ma anche un lutto da elaborare insieme.
Un lavoro del lutto che è anche un compito.
E non un qualsiasi compito di scuola.
I pensieri di questi personaggi, come si conviene, sono sempre declinati al presente indicativo. Questo contribuisce a renderli più attuali e presenti, ma senza che, per dirla con Heidegger, la loro, sia una semplice presenza.
Insomma, quelle di Ferrario, più che lezioni sono eventi.
A questi eventi i giovani studenti si appassionano sfatando così il luogo comune che li vuole superficiali, insensibili e disattenti.
Infatti, le lezioni col passare dei mesi si fanno più affollate. L’aula si fa via via più angusta, con gli studenti seduti per terra o in piedi. Ma, quando non c’è più posto nemmeno per stare in piedi, bisogna andare nell’aula più grande della Facoltà di Filosofia, quella destinata alle occasioni speciali.

Lo studio della linguistica e della filosofia del linguaggio mi hanno insegnato, almeno lo spero, la differenza tra il linguaggio scritto e il linguaggio parlato.
Sono due linguaggi distinti, anche se non linguisticamente separati, in quanto riferibili alla stessa lingua.
Passare da uno all’altro richiede, per dirla con Jakobson, un lavoro di traduzione endolinguistica e di interpretazione.
Non si tratta solo di cercare corrispondenze tra la ricchezza del tono e della prosodia del parlato, da una parte, e la miseria dei caratteri grafici disponibili nello scritto, dall’altra: punti di domanda, di sospensione, esclamativi, sottolineature ecc.
Né di tradurre, con degli improbabili segni scritti, le inevitabili pause del parlato.
Nemmeno di trovare una soluzione efficace per trascrivere le ripetizioni, gli incisi, gli anacoluti, sicuramente necessari per rendere espressivo il parlato, ma spesso da evitare o limitare nello scritto.
Come riuscire a scrivere e a descrivere le espressioni, i sorrisi, gli ammiccamenti, la gestualità così fondamentali nella lingua parlata da alterare o addirittura rovesciare, in qualche caso, il senso del discorso?
E’ forse possibile, poi, tradurre il tono, il colore della lezione e perfino l’odore dell’aula e dei libri, il rumore che viene dalla strada o, magari, il mucchio di zaini accatastati in un angolo?
Una traduzione fedele è, dunque, impossibile.
Ma, in fondo, anche la più fedele delle traduzioni possibili, sarebbe, forse, il più grande tradimento.
Perché tradurre è tradire. Ce lo dice la stessa etimologia.
E Walter Benjamin, nel Compito del traduttore, ci insegna che una “traduzione che volesse trasmettere e mediare non potrebbe mediare che la comunicazione – perciò qualche cosa di inessenziale”.
Per trasmettere l’essenziale, un certo grado di infedeltà è necessario.
Se così è, allora bisogna, in qualche misura, tradire, per avvicinarsi il più possibile al pensiero autentico.
Perché, come ci ha ricordato di recente in un’intervista Edgar Morin, anche in questo tradimento resta sempre un fondo di verità.

Ciò non toglie che sempre di tradimento si tratti.
Allora devo confessarlo e lo confesso: ho tradito.
Per questo devo chiedere perdono.
E non solo per questo.
C’è dell’altro. So che Ferrario è persona molto schiva, che non ama apparire.
Se è così, forse, le mie parole possono averlo messo in imbarazzo.
D’altra parte, non si deve mai mentire a un amico, sia pure un maestro amico.
Ma è anche di questo che devo chiedere perdono.

Franco Maria Fontana, 2006

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