martedì 27 febbraio 2007

La mia risposta al quesito sul perdono



La mia risposta al quesito sul perdono (1)

Non è facile dire che cosa avrei fatto io se mi fossi trovato nei panni di Wiesenthal.
Una simulazione in laboratorio del mio comportamento, in quelle determinate e particolarissime circostanze, così fortemente emotive e drammatiche, è quasi impossibile. Così come è impossibile riuscire, non solo a prendere una decisione ponderata in una simile situazione, ma anche solo immaginare o rappresentare quello che è stata la distruzione degli ebrei in Europa nel secolo scorso.
Tuttavia non voglio eludere il quesito, e una risposta provo a darla, seppure non una risposta definitiva.
Si dice: non si può perdonare a nome di altri, specie nel caso in cui l’offeso è morto.
Conosco, però, in proposito un’eccezione a riguardo: il perdono di Giovanni Bachelet a nome del padre, “certo di interpretare la volontà di mio padre”.
In quella circostanza ho davvero “sentito” che la volontà del padre si fosse incarnata nelle parole del figlio, quasi che il figlio avesse prestato la voce al padre.
Ma di un caso eccezionale si tratta.
Più in generale, l’argomento che non si può perdonare a nome di altri, specie nel caso in cui l’offeso è morto, è stato già sviscerato, ma non mi pare risolutivo e definitivo.
Basta, infatti, limitare il perdono non a nome di tutto il popolo ebraico, o di tutta l’umanità, ma al mio perdono.
A questo mi sarei potuto e dovuto limitare, anche se la mia insostituibilità in quel preciso momento, poteva caricarmi di responsabilità più alte e quasi universali.
Io credo di potere dare un perdono, un mio perdono, proprio perché, in quanto appartenente all’umanità, sono stato, per quanto mi riguarda, anche io offeso.
Infatti, ci si sente offesi ogni volta che si assiste a un’ingiustizia, senza che possiamo far nulla per impedirla.
Certo non si tratta di un perdono assolutorio, di un perdono definitivo, di un’ultima parola.
Si tratta solo del fatto che una parte sia pur minima dell’umanità offesa, cioè “io”, dà per quanto la riguarda, per la sua quota, il perdono.
Ed è anche chiaro che io lo vorrei dare il perdono e farei di tutto per darlo.
E non avrei pace finche non fossi riuscito a darlo.
Lo vorrei dare perché un’offesa lascia sempre nell’offeso una ferita e, se non si è in pace con gli altri, non si può essere in pace nemmeno con se stessi.
Il perdono, lo darei, ma sarebbe, credo, un perdono non totale e definitivo, non solo per il perdonato, ma anche per quanto mi riguarda.
Per darlo, infatti, e per potermi sentire in pace, come gli altri e con me stesso, dovrei riuscire a dimenticare. E se è vero che il perdono impone di non dimenticare, è altrettanto vero (e qui sta una delle aporie del perdono) che, finché si ricorda, rimane la traccia della cicatrice e non si è ancora guariti del tutto e, quindi, non si è perdonato del tutto.
Infine, se come componente dell’umanità sono, pro quota, parte offesa, è pur vero che, sempre pro quota, sono anche colpevole.
Infatti, se è vero che ci si sente offesi ogni volta che si assiste a un’ingiustizia senza che possiamo far nulla per impedirla, è altresì vero che in tale circostanza ci si sente anche colpevoli.
In questo senso vorrei anche io, allora, chiedere perdono, per quanto mi riguarda, ma non so a chi.
Un credente potrebbe rispondere meglio di me su questo punto. Ma, forse, anche lui sarebbe tormentato da dubbi.
E siamo ritornati così, in fondo, a un altro dei dilemmi o delle aporie del perdono: dover chiedere perdono e non sapere a chi.
Tuttavia non possiamo tirarci indietro.
Perché, se è vero che non possiamo perdonare e ottenere il perdono, è altrettanto vero, nello stesso tempo, che dobbiamo perdonare e chiedere il perdono.

Franco Maria Fontana

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(1) Il quesito mi era così stato posto nel 2005, da Samantha Maruzzella, allora laureanda in Filosofia, oggi felicemente laureata con 110 e lode, nell’ambito di una ricerca sul perdono alla base della sua tesi di Laurea: "Dibattiti sul Perdono. Arendt, Tutu, Derrida", relatore Edoardo Ferrario.

Illustre Signore,

Le chiedo anticipatamente scusa per il tempo che Le chiedo di dedicarmi.
Sono una studentessa della facoltà di Filosofia, dell'Università "La Sapienza", di Roma, ed in questo momento sto svolgendo un'attività di ricerca e documentazione su un tema a me molto caro: il PERDONO. Il desiderio di contattarLa nasce in me dopo la lettura di un meraviglioso testo di Simon Wiesenthal: "Il Girasole. I limiti del Perdono". Simon era stato internato nel campo di concentramento di Leopoli, perché Ebreo. Un giorno viene prelevato dal suo gruppo di lavoro da un'infermiera che lo conduce in una stanza dell'ospedale militare limitrofo, dove giaceva "quasi morta" una giovane SS, di nome Karl. Karl racconta a Wiesenthal tutti i crimini commessi, durante la guerra, e chiede a Simon il Perdono. Lo chiede a lui, in quanto Ebreo. Ma, Simon, si alza e se ne va. Ma Karl resta sempre nei pensieri di Wiesenthal, al punto che, alla fine della guerra, il nostro autore, sfuggito miracolosamente alla morte, va a trovare a madre di Karl, ma non ha il coraggio di raccontarle la Verità su suo figlio. Infine, Simon decide di raccontare questa vicenda, e chiede a grandi intellettuali dell'epoca di esprimere la loro opinione: loro, cosa avrebbero fatto, al posto di Wiesenthal? Io, oggi, pongo a Voi lo stesso interrogativo, così da poter allargare il dibattito. Qui di seguito riporto la lettera di Simon Wiesenthal, in originale, in modo da rendere giustizia alle parole dell'autore stesso. Certa e lieta di una Sua risposta, Le porgo i miei saluti ed un nuovo "Grazie", per il tempo dedicatomi.


Maruzzella Samantha.

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