domenica 25 febbraio 2007

L'assimilazione impossibile

(Monaco. 10 maggio 1933: rogo dei libri)



Un paradigma della storia dell’ebraismo
Secondo la definizione di Kuhn , un paradigma è “un’intera costellazione di credenze, valori e tecniche condivisi da una determinata comunità”.
Quando appaiono un certo numero di anomalie che il paradigma esistente non riesce a spiegare si entra in un periodo di crisi che sarà risolto da un nuovo paradigma, cui corrisponde una rivoluzione, vale a dire una rottura epistemologica, che finirà, a sua volta per ottenere il consenso della comunità scientifica.
Hans Kung, che adotta esplicitamente il punto di vista kuhniano , scandisce la storia dell’ebraismo, attraverso sei paradigmi e cinque rotture (o rivoluzioni):
1) Il paradigma tribale del periodo prestatale
a) conquista della Terra
2) Il paradigma regale del periodo monarchico
b) esilio di Babilonia
3) Il paradigma teocratico del giudizio post-esilico
c) distruzione del Tempio di Gerusalemme
4) Il paradigma rabbinico sinagogale de medioevo
d) dichiarazione dei Diritti dell’uomo
5) Il paradigma assimilazionista della modernità
e) Olocausto e Stato di Israele
6) Il paradigma del postmoderno

Nell’ambito della nostra ricerca c’interessa soffermarci sul paradigma assimilazionista. Questo paradigma ha dominato lungo un periodo le cui date di inizio e di fine, si pongono rispettivamente, quella d’inizio tra il 1776 e il 1779 (dichiarazione dei diritti dell’uomo negli Stati uniti e in Francia), quelle di fine tra il 1933 e il 1947 (insediamento al potere di Hitler e costituzione dello Stato di Israele).

L’assimilazione, come anticipato, prende inizio con la dichiarazione dei diritti dell’uomo, secondo la quale “gli uomini nascono e vivono liberi e uguali nei diritti”. Tutti gli uomini. Di tutte le razze, di tutte le religioni, di tutti i sessi. Quindi anche gli ebrei.
La culla di questa nuova cultura fondata sulla Ragione e sull’uguaglianza è l’illuminismo, quindi soprattutto la Francia, ancora prima della rivoluzione francese. Ma fin da subito, o meglio prima ancora che, questo nuovo paradigma, per dirla con Kuhn riesca ad imporsi, sorgono i primi problemi e le prime lacerazioni, che rimarranno come delle stigmate a funestare questo processo durato più di 150 anni.
Due visioni, infatti, si contrappongono in questo paradigma fin dalle sue radici. Questa polarità di opposizioni, nell’ambito dell’illuminismo francese, si può ben rappresentare, con gli atteggiamenti rispetto all’assimilazione da una parte di Montesquieu, dall’altra di Voltaire.
Da un lato Montesquieu, il quale esprimeva una posizione quasi isolata, riteneva che gli ebrei dovessero godere degli stessi diritti di tutti gli altri in quanto ebrei e non soltanto come cittadini.
Dall’altro lato Voltaire, il quale, nonostante che, forse più di ogni altro, avesse contribuito alle idee dell’illuminismo, e quindi spianato la strada all’assimilazionismo, detestava gli ebrei in quanto tali e arriva a chiamarli “compagnia di lebbrosi”
In sintonia con Voltaire erano anche Diderot e d’Holbach.
Un’eco di questa tensione oppositiva si trova nella posizione di Wilhelm Von Humboldt, così come descritta da Hannah Arendt in un suo articolo del 1946 , vale a dire in una fase in cui, a guerra finita si facevano i conti con la storia e con il fallimento dell’assimilazionismo. Da una lettera di Humboldt, definito uno dei pochi autentici democratici tedeschi , Arendt cita una frase paradossale e criptica “Io amo davvero soltanto l’ebreo en masse, en détail lo evito accuratamente” .
Humboldt, spiega Arendt, era un vero democratico proprio perché “mirava a liberare il popolo nel suo insieme rifiutando di riconoscere speciali privilegi ai singoli ”.

L’idea che l’ebraismo stesso non fosse compatibile con l’illuminismo, in quanto prigioniero del paradigma rabbinico talmudico, era un luogo comune. Questa opinione fu smentita dall’opera e dalla vita di Moses Mendelssohn, il primo illuminista ebreo, difensore della religione ebraica, fondatore dell’Haskalà, il movimento dell’illuminismo ebraico che sosteneva sia la teoria illuminata, sia l’osservanza della Legge ebraica.
Mendelssohn spese gran parte delle proprie energie per sviluppare un dialogo con gli illuministi non ebrei. Solo Christian Wilhelm Dohm rispose all’appello con il suo scritto, ispirato alla tolleranza, “Sul miglioramento delle condizioni degli ebrei” (1781) che ebbe grande risonanza nella Germania dell’epoca.
Il fine dichiarato di Mendelssohn era quello di conciliare ebraismo e modernità. Rimase sempre fedele alla religione ebraica e si rifiutò, a differenza di Heine, di battezzarsi, di pagare,cioè, quello che lo stesso Heine aveva definito il “biglietto d’ingresso nella cultura europea” . In una sua opera tarda , Mendelssohn sostiene che l’ebraismo non impone delle particolari opinioni dottrinali. E’ piuttosto una religione rivelata che invita non tanto all’accettazione di contenuti, vale a dire all’”ortodossia”, quanto alla “ortoprassia”, vale a dire al rispetto della Legge, a cui, però, solo gli ebrei sono tenuti . Tuttavia il conflitto ebraismo-modernità non trovò una conciliazione nemmeno nella stessa famiglia di Mendelssohn, dove si risolse a sfavore dell’ebraismo. I suoi figli e i nipoti, quindi tutta la sua discendenza, finirono col farsi battezzare. Più in generale quello del battesimo di convenienza, o del lento abbandono delle pratiche religiose tradizionali, fu un segno di come l’assimilazione consistesse, e come tale fosse vissuta fin dall’infanzia, nell’opportunità di partecipare ad un mondo meraviglioso, da cui in precedenza si era stati esclusi . Nello stesso tempo l’assimilazione veniva vissuto con la vergogna tipica dei parvenus .


L’assimilazione in Europa e negli Stati Uniti
Il primo paese a riconoscere diritti di uguaglianza fu, prima ancora della Rivoluzione francese, la Germania, del monarca illuminato Giuseppe II, figlio di Maria Teresa d’Austria. Gli editti di Tolleranza riconoscevano uguale dignità umana, come cittadini, ma non come ebrei. Un corollario di questi editti che furono promulgati in tempi diversi dal 1781 al 1789 e che interessarono la Boemia, la Moravia, L’Ungheria, la Galizia, era l’imposizione, male accolta dagli ebrei, della assunzione di cognomi tedeschi quali: Schwarz, Weiss, Rosenthal, da “acquistare” secondo “le possibilità finanziarie” .
Negli Stati Uniti la dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1776 stabiliva eguali diritti per tutti, quindi anche per gli ebrei.
Tredici anni dopo la Rivoluzione francese stabiliva, con una risoluzione, che tutti gli ebrei che avessero prestato giuramento come cittadini francesi avrebbero ottenuto pieno diritto di cittadinanza. Naturalmente anche in questo caso non in quanto ebrei, ma in quanto singoli cittadini.
Gli eserciti francesi, durante il periodo napoleonico esportarono i loro codici ei loro diritti a tutti i paesi d’Europa che andavano via via occupando.
Il codice napoleonico prevedeva l’abolizione dell’obbligo di vivere nel ghetto, del divieto di esercitare certe professioni e dell’imposizione di balzelli speciali per gli ebrei. Interessante anche l’istituzione di un nuovo ordinamento concistoriale delle comunità riconosciuto dallo Stato.
Il Metternich a partire dal 1815 tentò, in qualche caso con successo, di ripristinare la situazione precedente. Ma questo tentativo di restaurazione fu sostanzialmente controbilanciato dalla rivoluzione del 1848. In Russia con l’eccezione di un’esigua élite ebraica, costituita da ebrei di corte e ricchi commercianti, la grande massa, sotto l’influsso spirituale dei Chassidim non fu minimamente toccata.
In Italia le tappe dell’emancipazione furono scandite dal processo di unità nazionale.
Nello Stato pontificio rimaneva il ghetto con tutte le sue storiche restrizioni. Pio XI fu anche al centro dello scandalo internazionale del rapimento di un bambino ebreo al fine di dargli un’educazione cattolica contro la volontà dei genitori. Finalmente nel 1870 caddero i muri del ghetto e gli ebrei di Roma, divennero, come gli ebrei nel resto dell’Italia, cittadini con pari diritti.
In particolare l’Italia, proprio per il particolare processo di formazione dello stato unitario, fu uno dei paesi dove l’assimilazione, nei suoi diversi aspetti, giunse a maggiore compiutezza, come fece notare, nei quaderni del carcere, Antonio Gramsci .
Di sicuro l’antisemitismo, imposto con le leggi razziali del 1938, non fu mai il sentimento dominante degli italiani . Di questo e del fatto che non era stata imposta la stella di Davide agli ebrei si lamenterà Goebbels nel suo diario (1942).


Simbiosi parassitaria o simbiosi armonica?
Nella storia dell’ebraismo si è parlato di simbiosi a proposito di fenomeni diffusi di interazione culturale.
In particolare s’è parlato, di simbiosi con riferimento a tre diverse situazioni storiche.
La simbiosi giudaico–ellenistica, sviluppatasi dopo l’esilio degli ebrei ad Alessandria.
Poi la simbiosi ebraico-spagnola che ebbe la sua culla in Andalusia e che fu tragicamente interrotta nel 1492 da Isabella di Spagna .
Infine, ed è questa che ci interessa, la simbiosi ebraico-tedesca.

Sul termine simbiosi, di recente si è sviluppata una disputa tra la redazione di Pardés e Enzo Traverso. Quest’ultimo, nella sua analisi del fenomeno risale alla genealogia del termine simbiosi (in tedesco, Symbiose).
Il termine, di chiara derivazione greca (composto da Syn e da Bios) sembra sia stato coniato nel 1879 dal botanico Anton de Bary. Secondo la definizione del Petit Robert, “simbiosi” sta a indicare “l’associazione durevole e reciprocamente proficua di due organismi viventi”. Ma nel 1922 il biologo francese de Caullery definiva il parassitismo come una forma particolare di simbiosi, in cui un organismo si nutre a spese dell’altro.
Per questo motivo, secondo Enzo Traverso, l’immagine, diffusa dall’antisemitismo, dell’ebreo parassita deriverebbe proprio da questo termine.
A Enzo Traverso risponde la rivista Pardés. Nella presentazione di un numero monografico dedicato proprio alla simbiosi ebraico tedesco si porta a testimone il Dizionario della lingua italiana Treccani che definisce il termine “stretta unità, intima associazione, coesistenza, compenetrazione di fatti ed elementi diversi”. Quindi conclude Pardés, nell’immaginario collettivo, simbiosi ha un rimando positivo, non riconducibile al concetto di parassitismo.
Per la verità, a parte la stranezza filologica di mettere a confronto un dizionario francese con uno italiano per discutere il valore semantico di un termine tedesco, sembra che abbiano un po’ ragione, e un po’ torto tutti e i contendenti. Il fatto è che esistono entrambe le accezioni. E possiamo portare come esempio (non come prova, perché altrimenti ricadremmo nello stesso errore, da poco denunciato, di usare con disinvoltura dizionari di qualsivoglia lingua) il Battaglia .
Questo dizionario presenta, con eguale dignità e rilievo tipografico, due accezioni: simbiosi parassitaria e simbiosi armonica. La prima in riferimento a un organismo che si nutre a spese dell’altro. La seconda è relativa a una situazione contrassegnata da reciprocità e scambio fra due organismi.
A questi due diversi partiti filologici, in disputa tra loro, vengono fatti corrispondere, con qualche ulteriore forzatura di troppo, altretttante valutazioni del fenomeno.
Per Traverso, Auschwitz rappresenta lo sterminio fisico, ma non la fine della cultura ebraico tedesca. Già prima di Auschwitz, questa, infatti, era stata preservata dagli esuli. Per esempio dalla scuola di Francoforte, in esilio.
L’elenco dei nomi, portati come esempio, è significativo . Anche se ci vogliamo limitare al dopo Auschwitz è notevole: Canetti, Elias, Fromm, Loewenthal, Goldmann, Kracauer, Arendt, Marcuse, Bloch, Anders, Celan, Bettelheim, Amery.
Viene subito da osservare che molti di questi personaggi non sono certo mai stati assertori di nessuna simbiosi ebraico tedesca. Addirittura, con buona dose di temerarietà, viene aggiunto all’elenco anche Scholem, il quale, forse più di ogni altro, si è sempre opposto ad ogni concetto di simbiosi ben prima dell’avvento di Hitler.
Scholem resterà sempre coerente con questo suo orientamento, che si rafforzerà, come naturale, dopo lo sterminio e la scomparsa anche fisica, dell’intellettuale Ebreo in Germania . Su questo punto Scholem non ha torto.
La morte fisica è irreversibile e segna la fine della cultura ebraico tedesca.
In fondo è quello che i nazisti avevano voluto .

Per Pardés, a differenza di Traverso, la simbiosi è finita. L’identità ebraica è un dialogo. L’incontro tra ebreo e tedesco si può ottenere nel dialogo: “dialogo, una ricerca, anche un contraddittorio […] la posta in gioco: i rapporti d’amore tra le diverse identità, […] Il movimento come archetipo identitario, genera l’incontro con le parti più sconosciute, quindi più fertili della propria identità. Da questo movimento interno nasce la capacità dell’incontro con l’altro, nella fattispecie ebraico-tedesco (“Io e Tu”). […] E’ l’esatto contrario della visione etnocentrica, che è soluzione preesistente al dialogo, ammesso che lo preveda .
Se vogliamo ricondurre il ragionamento alle nostre premesse iniziali , Pardés sembra voler dire che il paradigma dell’assimilazione, non è più in grado, se mai lo è stato in passato, di fornire spiegazioni soddisfacenti di quel grande fenomeno dell’incontro tra l’ebreo e il tedesco.
Un altro paradigma, sembra, a tal fine, il solo adeguato: quello del dialogo, dell’ “Io – Tu”, del movimento verso l’altro, senza ritorno, senza appropriazione.


Monologo o simbiosi?
In realtà, quello che è mancato, per poter parlare di “simbiosi armonica”, è proprio lo scambio reciproco, tanto che qualcuno ha parlato di monologo ebraico . Questa “simbiosi” si realizzò grazie all’appropriazione e alla trasformazione del Geist tedesco ad opera della cultura ebraica e non in virtù della convergenza tra due tradizioni culturali . Non c’è stata la fecondazione e l’arricchimento reciproco.
Nemmeno nei non pochi casi di grandi amicizie tra un tedesco e un ebreo tedesco, si può dire che l’ebraismo abbia svolto un ruolo, se non marginale. Così è stato fra Hegel e Eduard Gans. Tra Marx ed Engels. Così come, in fondo, è stato, con qualche eccezione, specie nell’ultimo periodo, nell’amicizia tra Hannah Arendt e Karl Jaspers.
Tra Benjamin e Brecht, il ruolo giocato dall’ebraismo è addirittura inesistente. L’ebraismo era visto da Brecht con derisione . Possiamo dire che le eccezioni, parziali, costituite da quegli intellettuali tedeschi non ebrei che hanno attinto con profitto alla cultura ebraica, si contano sulle dita di una mano: Christian Wilhelm Dohm , Max Weber , Franz Joseph Molitor , Thomas Mann .
La simbiosi ebraico tedesca, fenomeno appariscente e di grande rilievo è, in realtà “una gigantesca esplosione di creatività ebraica, nata dall’incontro di una tradizione millenaria con il Geist tedesco” .
Stefan Zweig, nel suo libro autobiografico “Il mondo di ieri”, ricorda come, a Vienna, il contributo degli ebrei nell’arte, unico campo in cui non venissero discriminati, fu assolutamente preponderante .
In realtà gli ebrei furono sempre, in quanto tali, discriminati. Quando ciò non accadeva, questo avveniva al costo della rinuncia, volontaria, consapevole o meno, della loro specifica identità. Il caso di Rosa Luxemburg, giunta al vertice delle organizzazioni del movimento operaio, è emblematico. Donna, ebrea, polacca aveva, volontariamente rinunciato a tutte queste identità.
Ma il discorso su Rosa Luxemburg è assai più complesso, e non può essere liquidato in poche righe.


Ebreo come paria e come parvenu
Prima ancora di Hannah Arendt, è stato Max Weber a elaborare la figura di Ebreo come “paria”.
Già nel 1922 nella sua “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” Weber si riferisce agli ebrei come al popolo paria (pariavolk).
In india i paria sono un popolo–ospite (Gastvolk) separato dall’ambiente sociale .
Weber considera gli ebrei come rappresentanti di un capitalismo avventuriero, diversamente dai protestanti, dotati di un ethos puritano che consente loro di adattarsi all’industria moderna.
Gli ebrei vengono distinti dai paria indiani, sulla base di alcuni tratti pertinenti che, così vengono indicati: a) non hanno cittadinanza, e quindi sono stranieri; b) vivono negli interstizi stranieri e non sono concentrati in un solo territorio; c) la loro separazione non è imposta, ma è il frutto di una volontà legata a considerazione religiose; d) non lavorano la terra, ma formano delle comunità urbane; e) possiedono una doppia morale, una all’esterno e una all’interno della comunità ebraica; f) manifestano una tendenza all’endogamia.
Weber, che era un conoscitore del Talmud, aggiunge che il tradizionalismo ebraico avrebbe contribuito a emarginarli verso una condizione premoderna.
Un altro elemento che distingue i paria indiani da quegli ebrei è il messianismo di questi ultimi. Gli indiani, a loro volta, sono contraddistinti dalla rassegnazione nella attesa della metempsicosi.
Bernard Lazare, al contrario di Max Weber, vede nel popolo ebraico uno spirito calcolatore, che non discende dalla tradizione religiosa, ma che, invece, è il risultato degli effetti provocati dalla riforma protestante sulle comunità ebraiche . Senza dubbio il contributo più originale di Bernard Lazare è quello di aver trovato una positività nel paria, visto non più solo come un vinto, ma come l’orgoglioso detentore di una tradizione nascosta: “la fierezza di essere paria, e soprattutto di essere ebreo, di cui si vorrebbe fare il padrone del mondo. La voluttà di conferire nobiltà alla propria infamia, di fare un regno del proprio avvilimento” ,
Ma se, da un lato l’assimilazione creava la figura del paria, dall’altro, quasi come contrappeso, fa emergere la figura, in qualche misura speculare, del parvenu.
Il parvenu è colui che rinuncia alla propria identità, alla sua storia, alla sua tradizione, ai suoi valori, alla sua legge. Non ha più orgoglio, né spirito di rivolta. Si vergogna di se stesso e della sua origine.
Hannah Arendt, nei primi anni del suo esilio francese, scopre “Le fumier di Job”, il libro postumo di Bernard Lazare pubblicato nel 1928 e misconosciuto. Ne rimane impressionata. Sono gli stessi anni nei quali elabora quasi tutta la biografia di Rahel Varnhagen, poi sospesa e pubblicata molto più tardi, nel 1958 .
Rahel Varnhagen, è un’ebrea assimilata, ricca, intelligentissima, non bella, animatrice a Berlino, di un salotto culturale frequentato dai più bei nomi della Germania del tempo. Dai fratelli von Humboldt, a Schleiermacher, ai fratelli Schlegel, von Kleist, Heine. Nella prima parte della sua vita è una parvenu. Si vergogna di essere ebrea. La sua vergogna deriva dall’impossibilità di uscire dall’ebraismo, e nello stesso tempo dall’impossibilità di viverlo in modo naturale, di sentirsi a casa sua, chez soi, nel mondo.
Cerca il successo. Soprattutto vuole essere accettata. Cerca l’amore di uomini più giovani, anche se meno intelligenti di lei. Poi il cambiamento. Capisce che non può e non deve rinunciare alla sua ebraicità. Capisce che la sofferenza rafforza il suo spirito “devo dunque - scrive nel suo diario – lasciar cadere tutto su di me, come il temporale se sono senza ombrello” . Insomma si fa paria.
Qualcuno ha ipotizzato, non solo una simpatia, ma addirittura un’identificazione della stessa Arendt con questo personaggio. E qualcun altro ha trovato che la condizione di paria si applica non solo agli ebrei, ma anche alle donne.
In una lettera a Jaspers, con riferimento a Rahel, Arendt elenca le qualità dei paria: amore, alberi, bambini, musica .
Dalla figura di Rahel e dal libro della Arendt, Scholem, in una lettera a Benjamin, trae lo spunto per definire l’assimilazione ebraico tedesca come “un’alleanza costruita sull’inganno” .
La figura del paria ha avuto anche le sue fortune cinematografiche.
Basta pensare a Charlot, o, molto più di recente, al Zelig di Woody Allen

2.6 Herzl campione di parvenu
Hannah Arendt considera, in opposizione a Lazare, Herzl non solo il teorizzatore, ma anche il prototipo del paria. Questo personaggio, ritenuto il padre del sionismo politico, di cui redasse il manifesto , con la sua ambizione e il suo comportamento improntato all’imitazione e al sostanziale rifiuto della propria ebraicità, incarna la figura del parvenu. La forma statuale cui si ispirava, nel disegnare il nuovo Stato ebraico, era quella del Reich Tedesco. Sognava di esserne il cancelliere. Tanto è vero che nel gennaio 1904, pochi mesi prima della sua morte, descriveva nei suoi diari un sogno a tal riguardo significativo. Stava solo, in una barca in mezzo al mare, con l’imperatore tedesco . A partire dal 1896, anno successivo al processo e alla degradazione di Dreyfus, fino alla sua morte prematura, l’attività principale di Herzl consiste nel partecipare a incontri, da potenza a potenza, con capi di stato e notabili di tutto il mondo: il kaiser tedesco, il sultano ottomano Abdul Hamid II, il responsabile delle colonie britanniche Joseph Chamberlin, il papa Pio X, il re d’Italia Vittorio Emanuele III, il ministro degli interni zarista Plehve. A quest’ultimo, senza dubbio il principale e diretto responsabile dei pogroms, propone un improbabile scambio: la cessazione di ogni attività da parte dei rivoluzionari ebrei russi in cambio dell’appoggio da parte del regime zarista al movimento sionista .
Questa sorta di “intelligenza” con il nemico non deve meravigliare, se si pensa con quanta grande spregiudicatezza riteneva di servirsi dell’antisemitismo, come un alleato per la fuoriuscita degli ebrei dalla Germania e la costituzione di uno stato ebraico. Come ricorda Hannah Arendt, Herzl era convinto che “più un uomo era antisemita, più avrebbe apprezzato i vantaggi di un esodo degli ebrei dall’Europa”
La lingua ufficiale del nuovo stato doveva essere il tedesco. Non certo l’ebraico, lingua morta. Ma nemmeno l’yiddish molto diffusa tra gli ebrei askenaziti. Anzi, per Herzl era ora che gli ebrei abbandonassero finalmente questo “dialetto degenerato e corrotto che utilizziamo oggi, questa lingua del ghetto” . Così dicendo, mostrava di disprezzare il ghetto e i suoi abitanti, vale a dire, in fondo, gli stessi ebrei e, in ultima analisi, se stesso. .
In poche parole il nuovo stato da fondare in Palestina (ma non necessariamente in Palestina), altro non avrebbe dovuto essere che la copia in miniatura della Germania o dell’Austria. Appare condivisibile allora la tesi di Enzo Traverso, che - secondo Herzl - vittime di un’Europa fondata sul principio degli stati nazionali, essi [gli ebrei] non dovevano combattere questo sistema che li escludeva, ma conformarvisi totalmente. … La sua [di Herzl] idea di uno stato ebraico […] tradiva in realtà un desiderio profondo di assimilazione. […] Si trattava di ‘normalizzare’ la condizione ebraica non contro ma nel rispetto dell’ordine esistente. La creazione di uno stato ebraico rappresentava agli occhi di Herzl il mezzo per giungere a una soppressione radicale e definitiva dell’alterità ebraica nella diaspora” .

Franco Maria Fontana, 2003

1 commento:

lepartìc ha detto...

ottimo articolo. E' possibile specificare la bibliografia?
grazie