venerdì 16 marzo 2007

GLI EBREI TEDESCHI E LA GRANDE GUERRA. IL CASO COHEN


Cimitero ebraico di Berlino: il Monumento e le tombe dei soldati ebrei morti nella guerra 1914-1918


1) Ebrei tedeschi in guerra
Lo scoppio della Grande Guerra, fu, in generale vissuto dagli ebrei tedeschi come una storica occasione di riscatto. Schierati sullo stesso fronte e sotto la stessa bandiera aspiravano alla piena legittimazione della loro appartenenza alla patria tedesca.
Sarebbe stata la migliore risposta all’ondata di antisemitismo che dalla fine del secolo precedente aveva ripreso a svilupparsi, in varie forme, con virulenza in tutta Europa.
Non veniva dato gran peso alle forti discriminazioni formali che perduravano, anche in seno all’esercito e non solo nella società. Qualcuno si consolava con il fatto che, tutto sommato, in Germania le discriminazioni non erano così forti, come in Francia. Un caso come quello accaduto al capitano Dreyfus – si andava ripetendo - in Germania non sarebbe potuto accadere. Ma, forse, ci si dimenticava troppo facilmente che, se questo era vero, lo era solo perché, allora, in Germania un ebreo non avrebbe mai potuto diventare capitano dell’esercito .
Di certo, l’appello alla mobilitazione fu generalmente accolto con entusiasmo. 100.000 ebrei furono mobilitati (su circa 500.000 cittadini ebrei, quasi la totalità dei maschi in età idonea al combattimento). Anche il tributo di sangue fu notevole: 12.000 morti .
Si sa poi come è andata a finire l’attesa gratitudine da parte della Germania. Nemmeno a livello individuale questo tributo di sangue e di eroismo ha avuto un qualche riconoscimento.
Gli ebrei reduci e i decorati della Grande guerra saranno tutti deportati, tra il 1941 e il 1945, nel campo di Theresienstadt . Tra questi anche Martha Cohen, la moglie di Cohen, che morirà nel 1942 a 82 anni .

Tra i personaggi che saranno al centro della nostra ricerca i comportamenti e le motivazioni furono varie.
Rosenzweig, pur essendo dichiarato non abile al servizio militare, nel 1914 chiede e ottiene di partire come volontario della Croce Rossa prima per il fronte belga poi per quello balcanico. Dopo un anno riesce a prestare servizio nell’artiglieria a Kassel.
Rosenzweig non era favorevole alla guerra, ma considerava suo dovere di ebreo tedesco quello di parteciparvi.
Diverso e molto meno “patriottico” il comportamento di Benjamin. Fino al 1914 membro attivo della Jugenbevegung, la gioventù tedesca, se ne allontana, quando, allo scoppio della guerra il capo del movimento insieme a molti altri componenti partono per il fronte. Per scongiurare la chiamata alle armi, Benjamin, simula una sciatica che gli vale l’esonero dal servizio militare . In seguito per evitare di essere richiamato una seconda volta, si rifugia in Svizzera . La guerra sarà per lui un momento di riflessione sul carattere “socialmente regressivo della tecnica moderna”.
Gershom Scholem prende posizione subito contro la guerra. Nutrito di molti testi anarchici e socialisti, tentava, allora, di far coesistere il socialismo, nella sua versione pacifista, con il sionismo . Aveva letto anche i Tre discorsi sull’ebraismo di Martin Buber che lo avevano fortemente influenzato . Insieme all’amico Walter Benjamin condivide le posizioni di Karl Liebknecht, l’unico parlamentare ad aver votato contro la concessione dei crediti di Guerra al Reichstag . Pacifista attivo durante la guerra, Scholem, viene denunciato e costretto ad abbandonare il liceo un anno prima della maturità.
Complesso e contraddittorio l’atteggiamento di Kafka, così come è possibile leggerlo nei diari . All’inizio della guerra sembra ostentare una sovrana indifferenza . Poi manifesta estraneità e disprezzo per i cortei patriottici dei commercianti ebrei . Quindi esprime un sentimento, nello stesso tempo di odio e di invidia, per i combattenti . Ma non riesce a rimanere indifferente. Nei primi due anni di conflitto, da spettatore lontano e isolato, è torturato, dal dubbio se partire militare o far valere il privilegio dell’esonero dovuto al suo lavoro di funzionario presso l’Istituto in cui era impiegato . Poi nel riconoscere la propria incoerenza, si autoaccusa di vigliaccheria . Infine redige di propria mano un proclama per una sottoscrizione a favore dei combattenti vittime di malattie mentali. Nel testo del manifesto coglie l’occasione per denunciare la stretta relazione che lega tra loro macchine, industria e guerra . Nonostante, o forse grazie a queste turbolenze dell’animo, il periodo della guerra è, per lui, tra i più fecondi. Sotto l’impatto della mobilitazione generale, nel 1914 scrive “Il processo” e “Nella colonia penale”. Alla base del suo comportamento contradittorio stava certamente il desiderio di condividere un destino comune, di “integrarsi finalmente nella società” e, forse, anche quello di “essere strappato all’oscuro lavoro di funzionario ”
Singolare il comportamento e le motivazioni di Wittgenstein. Più che l’amore per la patria, sembra spinto da motivazioni di carattere quasi mistiche ed estetizzanti. Parte volontario , per cercare di trovarsi di fronte alla morte e diventare così un “uomo decente” (ein anstandige Mensch) . Dopo un periodo di attesa trascorso nelle retrovie, viene destinato finalmente al Fronte, in Galizia. Ammalatosi alcuni giorni prima della partenza , quando si prospetta l’eventualità di un ritorno nelle retrovie, così scrive nel Diario “il mio comandante, oggi, mi ha detto che vuole mandarmi nelle retrovie. Se ciò avviene, mi ammazzerò” . Una volta raggiunto il fronte chiede per sé gli incarichi più pericolosi.
Al suo posto di combattimento prega tutte le notti Dio perché gli dia il coraggio di guardare la morte negli occhi . Infatti “solo la morte dà significato alla vita” . Si guadagna diverse decorazioni, e anche, caso raro per un ebreo, la promozione a tenente. Alla vigilia dell’armistizio viene fatto prigioniero sul fronte italiano nei pressi di Trento.
Dopo la prigionia a Cassino, torna a casa trasformato. Rinuncia alla cospicua eredità paterna a favore dei suoi fratelli. Decide di andare a fare il maestro in alcuni sperduti villaggi dell’Austria meridionale.
Ma il più patriottico di tutti fu Hermann Cohen, un caso su cui vale la pena di soffermarsi. Nel 1914 ha 72 anni, ma non rinuncia, a mettere, sia pure in senso metaforico, l’elmetto di guerra.
Aveva ricevuto fin dalla nascita un’educazione ebraico ortodossa dal padre, sovraintendente della sinagoga e insegnante nella piccola comunità ebraica di Coswig nello Anhalt .
Nel 1876, trentaduenne ottenuta la libera docenza in Filosofia, fonda insieme a Paul Natorp la cosiddetta scuola neokantiana di Marburgo, che dirige fino all’età di settanta anni (1912).
A quel tempo era l’unico docente ordinario ebreo in tutta la Germania .
Lasciata la scuola di Marburgo, si trasferisce a Berlino dove insegna filosofia della religione ebraica alla Hoschule für die Wissenschaft des Judentums.
Come filosofo era convinto che tutta la tradizione etica dell’antico Testamento e la fedeltà al pensiero talmudico “trovassero il loro fondamento scientifico nella filosofia kantiana del primato dell’etica”.


2) Hermann Cohen: Kant, l’ebreo e il tedesco
Nel 1915, nell’urgenza della guerra, Cohen, non si limita più alle speculazioni teoriche. Vuole, a suo modo, scendere sul campo di battaglia. Tenta, a tal fine, di convincere gli ebrei americani a fare le dovute pressioni sul governo statunitense, per convincere questo paese a non allearsi né con la Russia zarista, ritenuta, non a torto, la principale responsabile dei pogrom, né con la Francia, che, schierata a fianco della Russia avrebbe così rinnegato la Rivoluzione Francese.
Cohen non raggiungerà il suo intento. A differenza di Bergson, suo concorrente in questa impresa, il quale, invece, riuscirà ad orientare gli ebrei americani a spingere per un alleanza con la Francia, e, quindi anche con la Russia.
Per il suo tentativo, che come abbiamo appena visto, andrà fallito, Cohen scrive un pamphlet di una cinquantina di pagine: Deutschtum und Judendum , diffuso in alcune decine di migliaia di copie.
Nel pamphlet sviluppa la tesi di una perfetta simbiosi tra ebraicità e Germanicità, mediata dall’elemento greco.
Alla base di questa conclusione, volendo semplificare un po’, ma, per quanto possibile nel rispetto del testo, c’è un sillogismo (o, a nostro avviso, come sarebbe più corretto dire, un paralogismo) di questo tipo:
a) L’umanità è il concetto fondamentale dell’etica di Kant.
b) L’etica di Kant è l’etica tedesca.
c) Il concetto di umanità trae origine dal messianesimo dei profeti di Israele.
d) Il messianismo è la colonna portante su cui poggia l’ebraismo
Da queste quattro premesse (a + b + c + d) ne deriva che l’etica tedesca si fonda sull’ebraismo

Con il senno di poi, di fronte a questo ragionamento, il lettore di oggi “proverà senza dubbio […] irritazione e resterà sconcertato” come di fronte a “testi maledetti” e azioni vergognose” .
Ma va tenuto conto che la figura di Hermann Cohen era all’epoca di grandissimo prestigio e che il neokantismo rappresentava allora il pensiero dominante in Germania. La stragrande maggioranza degli ebrei tedeschi (non però Rosenzweig, Buber, Benjamin e, naturalmente, Scholem) condividevano, sulla simbiosi, lo stesso pensiero di Cohen.
Ma quali sono, in dettaglio, le argomentazioni, non tutte infondate, di Cohen?
a) Dopo l’annientamento degli Ebrei in Spagna (1492) la Germania, a partire dal Settecento, diviene il centro mondiale della ebraicità.
b) La Germania è anche il paese dove si è più sviluppata la socialdemocrazia e la II internazionale, che viene vista, in virtù dei suoi ideali, la forza in grado di assicurare l’uguaglianza dei diritti agli ebrei
c) Il primato tedesco nella filosofia e nella Teologia è indiscusso, come è indiscusso il contributo che hanno dato e che potranno dare gli ebrei.
d) Gli ebrei risiedevano in Germania fin dal tempo di Tacito. Dalla Germania non sono mai stati espulsi , a differenza di quanto accaduto in Spagna, Francia, Inghilterra, Polonia e Russia
e) Da un punto di vista geopolitico la Germania, è il centro di accoglimento destinato a ricevere gli ebrei dell’Est, anche in virtù della lingua di questi ultimi, l’yiddish, ritenuto un mezzo naturale di integrazione.

La lingua come fattore di integrazione è un nodo non secondario dell’argomentazione di Cohen e vale la pena di riportare le parole stesse della sua riflessione in proposito:
“Il fatto più importante è che questa letteratura, creata dagli ebrei tedeschi, fu redatta esclusivamente in tedesco. Quegli Ebrei, che dai tempi della peste erano fuggiti dalla Germania verso i paesi slavi, [si sottolinea, così,che non furono espulsi, ma spinti a fuggire per motivi di salute] mantennero, anche in queste terre, la lingua tedesca come lingua madre. Un tale atteggia¬mento di devozione ebraica verso i paesi che li protessero, lo si trova anche nella vicenda degli Ebrei di Spagna: dopo la loro espulsione e dispersione in Medio-Oriente, hanno mantenuto l’uso del castigliano classico. In Polonia ed in Russia, la lingua tedesca si è invece confusa con quella locale, diventando un dialetto, che ha saputo produrre una propria letteratura, risvegliata, oggi, dai pogrom russi. Questo dialet¬to tedesco-ebraico è sorto in Polonia, e fu introdotto in Germania solo dopo il movimento di riflusso, che riportò, da quella terra, gli Ebrei, momentaneamente in esilio. L’autentica letteratura ebraico-tedesca è stata scritta in puro tedesco, anche se si è quasi sempre diffusa con i caratteri ebraici. Fin’ora, il dialetto ebraico-tedesco resta sconosciuto in Germania, sia come lingua scritta che orale ”.

Tra le critiche che si possono muovere a queste argomentazioni è stata formulata quella, secondo la quale, Cohen finisce con identificare, tra di loro, Stato e Nazione andando così in conflitto con la stessa fonte kantiana della sua ispirazione.
Secondo Marc De Launay , se lo stato si fonda “sulla nazione, cioè sul radicamento fisico delle persone nel territorio, […] si fonda sul popolo nato su quel suolo: ebbene quello stato potrà solo rivendicare l’universalismo fisico della propria estensione territoriale, oppure, ma è la stessa cosa, l’universalismo culturale, ma di fatto imperiale della sottomissione delle altre culture alla propria, necessariamente superiore, in quanto garantita, nella sua autenticità dalla sua presenza nel suolo nazionale”


3) La decostruzione di Derrida
Chi più di tutti ha contribuito, negli ultimi anni, alla fortuna (o alla cattiva fortuna) postuma di questo pamphlet è Jacques Derrida, che ne fornisce un’ampia decostruzione .
Fin dall’inizio del suo ragionamento, Derrida prende in esame due testi, quello di Cohen, Deutschumtum und Judentum, del 1915 e l’altro, Ein Gedenkblatt, del 1918, l’omaggio funebre di Rosenzweig allo stesso Cohen.
Secondo le modalità generali della pratica della decostruzione, indicate dallo lui stesso, in altra occasione , Derrida si serve di volta in volta di due differenti stili, quello della genealogia e quello del paradosso. Spesso intrecciandoli fra di loro, sviluppa le sue argomentazioni.
Nel suo omaggio a Cohen, Rosenzweig ricorda la propria iniziale diffidenza.
Diffidenza che lascia il posto allo stupore. Si era finalmente accorto che Cohen, era diverso dagli altri professionisti dell’accademia. Era una docente che parlava agli allievi della posta in gioco della vita umana, ricordava loro i rischi abissali del pensiero e dell’esistenza. Derrida sottolinea il termine “abissale”, e, di passaggio, fa notare che alcuni tratti dell’elogio ricordano l’insegnamento di Heidegger, filosofo tedesco e, senza dubbio alcuno, di genealogia greca.
Che cosa si rivela così a Rosenzweig?
L’essenza dell’ebreo tedesco. Ebreo e tedesco.
E qui Derrida comincia la decostruzione vera e propria,
“L’equivoco è notevole” - dice - è sta tutto nella determinazione della congiunzione.
A questo punto, Derrida, per sviluppare il suo ragionamento, apre una parentesi.
La figura dell’abisso è associata in Cohen al fuoco vulcanico, al fuoco liquido e al ritmo di una retorica discontinua, scandita da una rottura, un’interruzione, nella quale secondo Derrida, Rosenzweig riconosce subito un carattere di ebraicità.
Possiamo osservare che l’esperienza della rupture è a partire dagli anni ’80 un argomento ricorrente e importante nella decostruzione Derridiana.
In particolare la rottura (Anstoss per Gadamer, rupture per Derrida) è, forse, la chiave per tentare di comprendere il cosiddetto dialogo tra sordi che ha come protagonisti dialoganti Gadamer e Derrida, iniziato a Parigi nel 1981, e rinfrescato nel 2003, un anno dopo la morte dello stesso Gadamer, in un discorso di Derrida tenuto ad Heidelberg . Il dialogo, ora evidentemente virtuale, per quanto riguarda Gadamer, viene proseguito dallo stesso Derrida eda parte di chi ne ha raccolto l’eredità .

Proprio dal riconoscimento dell’interruzione, Derrida prende le mosse, per alcune osservazioni.
- La prima è che questa rottura ha una duplice funzione: marca l’essenza della congiunzione “e”, ma, e questo è importante, determina anche l’ebreo nel tedesco. A tal proposito Derrida parla di potere dissociativo, di ruptivité (neologismo francese, tradotto correttamente in italiano con il neologismo ruttività).
Insomma la “e” reca con sé sia la congiunzione, sia la disgiunzione.
- La seconda osservazione è che questa “congiunzione disgiuntiva” è anche una maniera di concatenare i discorsi senza incatenarli alla retorica e alle regole di transizione dell’argomentazione filosofica, ma a guisa di una serialità aforistica . Per meglio farsi comprendere, Derrida ricorda la genesi della Stella della Redenzione, costituita a partire da una serie di cartoline postali spedite ad amici e parenti da parte di Rosenzweig, quando si trovava al Fronte. Ciascuna come una breve scossa vulcanica.
- La terza è che l’omaggio di Rosenzweig a Cohen, si basa sulle lezioni orali di quest’ultimo, vale a dire sulla parola e sul ritmo della parola . Non sugli scritti.
Dice infatti Rosenzweig “Non c’è nulla di più ebraico di una simile assenza di transizioni”. Come a dire – aggiunge Rosenzweig – “ben più ebreo di tutti quelli che oggi [nel 1918] rivendicano con visibile nostalgia la loro purezza ebraica” .
L’elogio, come osserva Derrida, accentua la singolarità e la solitudine di Cohen.
Secondo Rosenzweig, Cohen non dissocia il sentimento dall’intelletto. In tal modo associa i problemi “della vita e della morte”.
Cohen, ha un “sistema”, termine che, come sappiamo , dovrebbe far inorridire Rosenzweig. Ma, nel nostro caso, non è così. La singolarità di Cohen - osserva Derrida - consiste nel fatto che non si limita a possedere il sistema, ma “lo offre, dona insomma ciò che ha promesso”
La lode più grande che Rosenzweig può fare è quella di dire che Cohen “ha pensato e dato da pensare al di là del sistema” .
E così continua Rosenzweig: “Fu forse il solo della sua generazione e persino della seguente a non scartare con un gesto sprezzante, da falso sapiente, le questioni fondamentali che da sempre si pone l’umanità e che riguardano la vita e la morte” .
Osserviamo che pensare la vita e la morte è per Rosenzweig un punto discriminante, staremmo per dire uno schibboleth , per stabilire l’appartenenza ai nuovi oppure ai vecchi filosofi . Per questo motivo possiamo dire che in tal modo, Rosenzweig ascrive Cohen nel campo dei nuovi filosofi o se preferiamo del nuovo pensiero.

A questo punto Derrida passa finalmente a parlare del Deutschumtum und Judentum.
Ricorda che Cohen, per stabilire una stretta parentela tra Kant e l’ebraismo, ricerca, innanzitutto un terzo termine comparativo che individua nell’ellenismo.
A proprio sostegno, quasi a proprio testimone, Cohen cita, quale erede ebreo di Platone, Filone di Alessandria. L’esilio dell’ebraismo verso Alessandria avrebbe elevato il destino d’Israele a livello mondiale. Il logos che ha una funzione mediatrice nella filosofia di Filone, diviene il mediatore (Mittler) tra Dio e l’uomo. E così, da ellenistico, il logos si fa cristiano. “Il logos neoplatonico suggella quindi l’alleanza giudeo-ellenistica. […] Che lo sappiano o meno, i tedeschi sono degli ebrei ”
A questo punto Cohen parla di una forza storica fondamentale (historische Grundkraft) che non può mai esaurirsi. E’ una forza che agisce sulle grandi svolte della storia dello spirito tedesco, e, forse facendo irrompere la categoria dell’inconscio di Freud, aggiunge che i soggetti ebrei o tedeschi non ne sono necessariamente coscienti. Si pone, però, il problema di come render conto (logon didonai) del fenomeno ebraico-tedesco.
E a questo punto interviene Derrida formulando alcune tesi, quasi dei suggerimenti, a Cohen stesso.
Secondo la prima tesi, forse provocatoria, non ha molto importanza stabilire se Cohen crede veramente a quello che dice e, più in generale, a tutto ciò che è delirante
Infatti, a ben guardare, Cohen si limita a spiegare solo lo spirito tedesco con l’anima (psyché) ebraico-tedesca. ”Che io ebreo tedesco, vi creda è una questione […] priva di ogni pertinenza. […] Voi avete il diritto di considerare il mio discorso come un sintomo (Wahrzeichen) della follia che esso descrive, ma ciò non toglie nulla al suo valore […] quale autentico sintomo” . In questo ambito il sintomo è sapere e il saper è sintomo. L’oggetto è preso in una struttura di riflessione “artificiale” ciò che chiamiamo psiche. Questa forma di razionalismo è, nella sua essenza amnesia, almeno per quello che riguarda la sua genealogia, vale a dire tutta la filosofia, la ragione o il principio di ragione stessa.
La seconda tesi è che questo ambito, nel quale un sintomo ha la possibilità di divenire verità, non può essere considerato un ambito come gli altri.
Esso, infatti, è addirittura il logos che parla a partire da sé stesso. E per questo motivo, non deve “rendere conto di ciò che forma il principio e permette la ragione”. Questa logica, commenta Derrida, resta dunque assai forte. “Essa è meno una “logica” che un ambire a parlare della logica, a dire il vero sul logos.
“C’è forse una ‘meta-logica”, ma non c’è un ‘meta-logos’” .
A questo punto Derrida fa un passo indietro.
Ritornando al sillogismo iniziale e al termine medio comparativo, l’ellenismo, si tratta di dimostrare come e con quale titolo, qui si inserisca l’elemento tedesco. Infatti, senza una spiegazione convincente, sarebbe allora egualmente lecito, come fa notare Derrida, parlare ad esempio di un anima giudeo-spagnola, o araba-ebraica.
Tale questione non se la pone Cohen, ma, per suo conto e in sua vece, Derrida, che, appunto lo sta decostruendo.
L’anima, di cui si sta parlando – osserva Derrida - non è nemmeno ebraico-cristiana, ma più in particolare è, grazie a Lutero, ebraico-protestante.
Per almeno due ragioni.
La prima è per una certa tradizione tedesca che arriva fino a Heidegger.
La seconda ragione è che, qui, Cohen intende rispondere alla questione dell’essere.
E lo fa attraverso un’interpretazione che prende le mosse dal platonismo, dal logos, dall’eidos, e sopratutto dall’hypotheton platonici. Si potrebbe considerare la riforma luterana come la forma religiosa della razionalità che oppone il logos e l’eidos ai dogmi della chiesa cattolica. E la riforma tedesca si collocherebbe a fianco dell’illuminismo, non contro di esso. Questa volta, però, Cohen per dimostrare la sua asserzione non fa ricorso a un terzo elemento di comparazione.
Per Cohen, infatti, non c’è bisogno di dimostrazione. E’ con tutta evidenza, che questa profondità si manifesta nella cultura spirituale: religione, arte, filosofia. Ma non, per esempio, nella matematica, che è universale per essenza. La domanda “Was ist Deutsch” viene qui ricondotta alla domanda “che cos’è la filosofia tedesca?”
Da questa assunzione deriva poi, semplificando un po’, tutto il resto: la grandezza delle armate tedesche, la necessità del servizio militare obbligatorio, il dovere per gli ebrei del mondo intero a riconoscere nella Germania la loro vera patria e di impedire all’America di allearsi con l’Inghilterra, la Russia e la Francia, la quale ha tradito la sua rivoluzione.
Ma ne deriverebbe anche che la lingua degli ebrei, di tutti gli ebrei del mondo debba essere il tedesco. Perché?
Semplice.
Per Cohen, la Germania è “la madrepatria della loro anima (das Mutterland seiner Seele) ” . Se esiste un internazionalismo ebraico questo ha un senso nella misura in cui tutti gli ebrei del mondo hanno una patria comune per la loro psiche (Seele). Ora questa patria non è Israele, ma è la Germania, “poiché è la madrepatria della sua anima” .
Ma perché, si domanda, gli ebrei americani a cui è indirizzato il pamphlet di Cohen, dovrebbero sentire un obbligo di pietà nei confronti della Germania?
Semplice, risponde Cohen: è a causa della lingua. Anche se l’yiddish storpia, mutila tronca la lingua materna, fa ancora riferimento a quella lingua, alla quale deve la forza originaria della ragione (Urkraft der Vernunft).
A questo punto, Cohen attacca Bergson. A nostro avviso con una caduta di stile che non gli fa onore, degna, piuttosto, di una disputa da cortile. Parla di un filosofo francese, che si fa passare per filosofo originale, figlio di un ebreo polacco che parlava yiddish.
E aggiunge “cosa può mai passare per la testa di questo signor Bergson quando pensa a suo padre e nega alla Germania i suoi ideali?
La decostruzione di Derrida termina mostrando le contraddizioni tra le posizioni di Cohen, e quelle di Kant, sulla federazione tra stati, la pace perpetua, l’esistenza degli eserciti permanenti, che secondo Cohen non sarebbero la causa delle guerre.
Ma tutte queste contraddizioni non impediscono a Cohen di concludere kantianamente il suo pamphlet con un motto, quasi un suggello, kantiano: “il nostro avvenire dipende dalla capacità di concepire, nella loro differenza razionale, la natura e la morale, ‘il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro me’ e di cercare la loro unità soltanto nell’idea del Dio uno.”