martedì 27 febbraio 2007

A proposito di "Pasque di sangue". Intervento nel forum di "Olokaustos" del 27 febbraio 2007


Segnalo che “Pasque di sangue” di Ariel Toaff, il libro tanto discusso e poi ritirato dall’autore, è ora tranquillamente in vendita su ebay.
Le offerte all’asta piovono. La sua quotazione supera i 200 euro.
Non si tratta di una sola copia o di un caso isolato.
Attualmente nel web sono offerte da vari venditori circa 14 copie, vedi la relativa pagina web di e-bay.
Come era prevedibile il linciaggio, prima dell’autore, poi di coloro che hanno tentato di difenderlo, quindi la messa all’indice e la censura (mi piace chiamare le cose con il loro nome) non poteva che portare a una esponenzializzazione dell’attenzione su una cosa che, viceversa, si voleva occultare.
Ora c’è chi aspetta con ansia l’edizione “purgata” col solo scopo di meglio evidenziare le parti cancellate, che saranno, c’è da prevederlo, fotocopiate, scannerizzate, bloggate e messe in circolazione.
Il fascino del proibito, si sa, è irresistibile.

Si può discutere del valore della ricerca di Ariel Toaff, nonostante l’autorevolezza dell’autore imponga prudenza e rispetto.
Si possono, a ragione discutere, sia la scelta sensazionalistica del titolo sia quella della copertina.
Ma il linciaggio, la messa all’indice e la censura non segnano, di sicuro un progresso, sulla strada dell’abbattimento dell’antisemitismo.
Al contrario sono proprio episodi come questo che, nonostante il proliferare dei monumenti e delle giornate della memoria, alimentano l’odioso antisemitismo che non smette di funestarci.

Non sarebbe stato meglio un abbassamento dei toni e magari un confronto con l’autore che non prevedesse la sua abiura?

Franco Maria Fontana

La mia risposta al quesito sul perdono



La mia risposta al quesito sul perdono (1)

Non è facile dire che cosa avrei fatto io se mi fossi trovato nei panni di Wiesenthal.
Una simulazione in laboratorio del mio comportamento, in quelle determinate e particolarissime circostanze, così fortemente emotive e drammatiche, è quasi impossibile. Così come è impossibile riuscire, non solo a prendere una decisione ponderata in una simile situazione, ma anche solo immaginare o rappresentare quello che è stata la distruzione degli ebrei in Europa nel secolo scorso.
Tuttavia non voglio eludere il quesito, e una risposta provo a darla, seppure non una risposta definitiva.
Si dice: non si può perdonare a nome di altri, specie nel caso in cui l’offeso è morto.
Conosco, però, in proposito un’eccezione a riguardo: il perdono di Giovanni Bachelet a nome del padre, “certo di interpretare la volontà di mio padre”.
In quella circostanza ho davvero “sentito” che la volontà del padre si fosse incarnata nelle parole del figlio, quasi che il figlio avesse prestato la voce al padre.
Ma di un caso eccezionale si tratta.
Più in generale, l’argomento che non si può perdonare a nome di altri, specie nel caso in cui l’offeso è morto, è stato già sviscerato, ma non mi pare risolutivo e definitivo.
Basta, infatti, limitare il perdono non a nome di tutto il popolo ebraico, o di tutta l’umanità, ma al mio perdono.
A questo mi sarei potuto e dovuto limitare, anche se la mia insostituibilità in quel preciso momento, poteva caricarmi di responsabilità più alte e quasi universali.
Io credo di potere dare un perdono, un mio perdono, proprio perché, in quanto appartenente all’umanità, sono stato, per quanto mi riguarda, anche io offeso.
Infatti, ci si sente offesi ogni volta che si assiste a un’ingiustizia, senza che possiamo far nulla per impedirla.
Certo non si tratta di un perdono assolutorio, di un perdono definitivo, di un’ultima parola.
Si tratta solo del fatto che una parte sia pur minima dell’umanità offesa, cioè “io”, dà per quanto la riguarda, per la sua quota, il perdono.
Ed è anche chiaro che io lo vorrei dare il perdono e farei di tutto per darlo.
E non avrei pace finche non fossi riuscito a darlo.
Lo vorrei dare perché un’offesa lascia sempre nell’offeso una ferita e, se non si è in pace con gli altri, non si può essere in pace nemmeno con se stessi.
Il perdono, lo darei, ma sarebbe, credo, un perdono non totale e definitivo, non solo per il perdonato, ma anche per quanto mi riguarda.
Per darlo, infatti, e per potermi sentire in pace, come gli altri e con me stesso, dovrei riuscire a dimenticare. E se è vero che il perdono impone di non dimenticare, è altrettanto vero (e qui sta una delle aporie del perdono) che, finché si ricorda, rimane la traccia della cicatrice e non si è ancora guariti del tutto e, quindi, non si è perdonato del tutto.
Infine, se come componente dell’umanità sono, pro quota, parte offesa, è pur vero che, sempre pro quota, sono anche colpevole.
Infatti, se è vero che ci si sente offesi ogni volta che si assiste a un’ingiustizia senza che possiamo far nulla per impedirla, è altresì vero che in tale circostanza ci si sente anche colpevoli.
In questo senso vorrei anche io, allora, chiedere perdono, per quanto mi riguarda, ma non so a chi.
Un credente potrebbe rispondere meglio di me su questo punto. Ma, forse, anche lui sarebbe tormentato da dubbi.
E siamo ritornati così, in fondo, a un altro dei dilemmi o delle aporie del perdono: dover chiedere perdono e non sapere a chi.
Tuttavia non possiamo tirarci indietro.
Perché, se è vero che non possiamo perdonare e ottenere il perdono, è altrettanto vero, nello stesso tempo, che dobbiamo perdonare e chiedere il perdono.

Franco Maria Fontana

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(1) Il quesito mi era così stato posto nel 2005, da Samantha Maruzzella, allora laureanda in Filosofia, oggi felicemente laureata con 110 e lode, nell’ambito di una ricerca sul perdono alla base della sua tesi di Laurea: "Dibattiti sul Perdono. Arendt, Tutu, Derrida", relatore Edoardo Ferrario.

Illustre Signore,

Le chiedo anticipatamente scusa per il tempo che Le chiedo di dedicarmi.
Sono una studentessa della facoltà di Filosofia, dell'Università "La Sapienza", di Roma, ed in questo momento sto svolgendo un'attività di ricerca e documentazione su un tema a me molto caro: il PERDONO. Il desiderio di contattarLa nasce in me dopo la lettura di un meraviglioso testo di Simon Wiesenthal: "Il Girasole. I limiti del Perdono". Simon era stato internato nel campo di concentramento di Leopoli, perché Ebreo. Un giorno viene prelevato dal suo gruppo di lavoro da un'infermiera che lo conduce in una stanza dell'ospedale militare limitrofo, dove giaceva "quasi morta" una giovane SS, di nome Karl. Karl racconta a Wiesenthal tutti i crimini commessi, durante la guerra, e chiede a Simon il Perdono. Lo chiede a lui, in quanto Ebreo. Ma, Simon, si alza e se ne va. Ma Karl resta sempre nei pensieri di Wiesenthal, al punto che, alla fine della guerra, il nostro autore, sfuggito miracolosamente alla morte, va a trovare a madre di Karl, ma non ha il coraggio di raccontarle la Verità su suo figlio. Infine, Simon decide di raccontare questa vicenda, e chiede a grandi intellettuali dell'epoca di esprimere la loro opinione: loro, cosa avrebbero fatto, al posto di Wiesenthal? Io, oggi, pongo a Voi lo stesso interrogativo, così da poter allargare il dibattito. Qui di seguito riporto la lettera di Simon Wiesenthal, in originale, in modo da rendere giustizia alle parole dell'autore stesso. Certa e lieta di una Sua risposta, Le porgo i miei saluti ed un nuovo "Grazie", per il tempo dedicatomi.


Maruzzella Samantha.

lunedì 26 febbraio 2007

Nota del curatore a "Testimoniare" di Edoardo Ferrario, a cura di Franco Maria Fontana, Ed. Lithos, Roma 2006




Nota del curatore

Quello che segue più che una nota del curatore, è una confessione.
Ed è una richiesta di perdono.
Questo libro, forse, non doveva nemmeno essere scritto.
Verrebbe quasi da dire che non è un libro.
E’ nato da un accumulo successivo di materiali effimeri destinati ad un uso immediato e al libro eterogenei.
Di sicuro non è stato concepito come tale.
E’ lui, il libro stesso, che è voluto nascere, se così si può dire, quasi di sua iniziativa e che ha spinto per venire alla luce.
Con questo non si vuol dire che sia la prima volta che delle lezioni diano origine a un libro.
Illustri esempi, non solo legittimano, ma addirittura, nobilitano questa particolare genesi.
Dal corso di Linguistica di Saussure, alle lezioni di Estetica di Hegel, da quelle di Arendt su Kant, alle lezioni o conferenze di Heidegger e Freud.
Per non dire, se vogliamo risalire alle origini, dell’intera opera Aristotele.
Ma sarebbe troppo banale limitarsi a parlare, nel nostro caso, di appunti presi a lezione e poi messi in bella copia in un libro.
Del resto, se di appunti si tratta, questi sono stati presi da uno studente atipico durante delle lezioni molto particolari.
Innanzitutto balza agli occhi che, come allievo, sono addirittura più anziano del mio maestro.
Ho assistito a queste lezioni, con alle spalle una laurea giovanile in matematica e una senile in filosofia.
Sono, insomma, uno dei pochi che ha seguito il percorso indicato da Platone nella Repubblica. E questo, anche se fa sorridere, mi conferisce una certa aura e un segno di distinzione.

Ma sono soprattutto le lezioni di Ferrario ad essere molto particolari.
Non rispondono a un’economia predeterminata.
Non partono, come molto spesso accade, anche in molti degli illustri esempi ricordati, da un’ipotesi di studio: un’ipotesi da sviluppare con una catena di ragionamenti fino a concludersi nella conquista di una tesi compiuta, di una verità dimostrata.
Non seguono, in altre parole, il metodo abituale nelle scienze esatte, forse, troppe volte da queste mutuato e trasferito di peso anche in altri domini del sapere.
Insomma, le lezioni di Ferrario non hanno un andamento lineare.
Ma, in fondo, non hanno, nemmeno, quello, secondo me, più fecondo, a spirale, che consiste nel girare intorno a un nucleo, senza però tornare indietro, ma guadagnando via via nuove posizioni.
No. Questo criterio risponderebbe, in fondo, pur sempre a un principio di economia.
Ferrario, invece, si limita a mostrare una serie di temi eterni e universali quali il perdono, la testimonianza, la pace, l’ospitalità, la guerra, la giustizia, la colpa, la morte, indicandone, con uno sguardo perspicuo, le relazioni, le implicazioni, le interdipendenze, le aporie che le lacerano e le arricchiscono.
E lo fa mettendo in scena un dialogo immaginario tra personaggi di epoche differenti o che, se contemporanei, non si erano mai conosciuti o parlati fra di loro.
Come nel caso di Arendt e Lévinas.

A lezione Ferrario si presenta con una borsa di pelle rigonfia di libri.
La borsa è di quelle vissute, che la sanno lunga. Anche i libri sono vissuti. Ne tira fuori una decina.
Sembra impossibile che una sola borsa, di normali dimensioni, ne possa contenere tanti. Sono zeppi di sottolineature e di segnalibri colorati. Spesso ingialliti. La traccia, forse, di una notte passata a preparare la lezione, ma anche di un lavoro di anni, di una vita di studio.
Con i libri squadernati sulla cattedra, comincia a mettere ordine nelle citazioni.
Perché Ferrario, come Benjamin, ama le citazioni.
In tal modo, inizia a parlare con questi pensatori, ad animarli e a farli dialogare tra di loro.
In un certo senso, fa un po’ da ventriloquo a questi personaggi.
E’, quasi, un demiurgo che, se non crea, almeno resuscita.
La cosa non deve stupire più di tanto. Basta pensare che nessuno degli autori da lui citati, o meglio, ventriloquati è morto del tutto. Tutti si sono guadagnati, da mortali, un posto nella immortalità: da Lévinas a Heidegger e Husserl, da Arendt a Kant fino ad Agostino, Cartesio, Celan, Freud, Kierkegaard ecc.
Qualche volta può accadere che i personaggi rappresentati, se viventi, vengano a mancare proprio durante il corso.
In questi casi la loro morte è l’occasione di una lezione molto particolare.
E’ il caso di Derrida (lezione del 17 ottobre 2004) e di Ricoeur (lezione del 24 maggio 2005).
Viene così impressa un’ulteriore imprevista accelerazione all’attualità della messa in scena, alla sua drammaticità e al coinvolgimento di tutti i partecipanti-spettatori.
Infatti una morte vissuta a lezione non è di quelle che si possono leggere sul giornale.
E’ quasi, la morte di una persona cara, solo pochi giorni prima invitata in aula e di cui si era ascoltata la viva voce. Per ognuno una ferita, un lutto personale.
Ma anche un lutto da elaborare insieme.
Un lavoro del lutto che è anche un compito.
E non un qualsiasi compito di scuola.
I pensieri di questi personaggi, come si conviene, sono sempre declinati al presente indicativo. Questo contribuisce a renderli più attuali e presenti, ma senza che, per dirla con Heidegger, la loro, sia una semplice presenza.
Insomma, quelle di Ferrario, più che lezioni sono eventi.
A questi eventi i giovani studenti si appassionano sfatando così il luogo comune che li vuole superficiali, insensibili e disattenti.
Infatti, le lezioni col passare dei mesi si fanno più affollate. L’aula si fa via via più angusta, con gli studenti seduti per terra o in piedi. Ma, quando non c’è più posto nemmeno per stare in piedi, bisogna andare nell’aula più grande della Facoltà di Filosofia, quella destinata alle occasioni speciali.

Lo studio della linguistica e della filosofia del linguaggio mi hanno insegnato, almeno lo spero, la differenza tra il linguaggio scritto e il linguaggio parlato.
Sono due linguaggi distinti, anche se non linguisticamente separati, in quanto riferibili alla stessa lingua.
Passare da uno all’altro richiede, per dirla con Jakobson, un lavoro di traduzione endolinguistica e di interpretazione.
Non si tratta solo di cercare corrispondenze tra la ricchezza del tono e della prosodia del parlato, da una parte, e la miseria dei caratteri grafici disponibili nello scritto, dall’altra: punti di domanda, di sospensione, esclamativi, sottolineature ecc.
Né di tradurre, con degli improbabili segni scritti, le inevitabili pause del parlato.
Nemmeno di trovare una soluzione efficace per trascrivere le ripetizioni, gli incisi, gli anacoluti, sicuramente necessari per rendere espressivo il parlato, ma spesso da evitare o limitare nello scritto.
Come riuscire a scrivere e a descrivere le espressioni, i sorrisi, gli ammiccamenti, la gestualità così fondamentali nella lingua parlata da alterare o addirittura rovesciare, in qualche caso, il senso del discorso?
E’ forse possibile, poi, tradurre il tono, il colore della lezione e perfino l’odore dell’aula e dei libri, il rumore che viene dalla strada o, magari, il mucchio di zaini accatastati in un angolo?
Una traduzione fedele è, dunque, impossibile.
Ma, in fondo, anche la più fedele delle traduzioni possibili, sarebbe, forse, il più grande tradimento.
Perché tradurre è tradire. Ce lo dice la stessa etimologia.
E Walter Benjamin, nel Compito del traduttore, ci insegna che una “traduzione che volesse trasmettere e mediare non potrebbe mediare che la comunicazione – perciò qualche cosa di inessenziale”.
Per trasmettere l’essenziale, un certo grado di infedeltà è necessario.
Se così è, allora bisogna, in qualche misura, tradire, per avvicinarsi il più possibile al pensiero autentico.
Perché, come ci ha ricordato di recente in un’intervista Edgar Morin, anche in questo tradimento resta sempre un fondo di verità.

Ciò non toglie che sempre di tradimento si tratti.
Allora devo confessarlo e lo confesso: ho tradito.
Per questo devo chiedere perdono.
E non solo per questo.
C’è dell’altro. So che Ferrario è persona molto schiva, che non ama apparire.
Se è così, forse, le mie parole possono averlo messo in imbarazzo.
D’altra parte, non si deve mai mentire a un amico, sia pure un maestro amico.
Ma è anche di questo che devo chiedere perdono.

Franco Maria Fontana, 2006

Auschwitz: la lingua della morte, la morte della lingua



Franco Maria Fontana, Auschwitz, la lingua della morte, la morte della lingua, in “La Rassegna mensile di Israel”, vol. LXX, n. 2, Maggio – Agosto 2004 Jiar - Av 5764, pp. 17-49.


Genealogie della lingua violata
“Dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio” .
Il secolo XIX, proprio perché contraddistinto dai tratti originari del totalitarismo e dalla larga diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, è stato anche un grande laboratorio per la violenza sulla lingua.
La lingua, come ben sanno i linguisti, sottostà a principi sia di conservazione, sia di cambiamento , determinati da fattori quali la massa dei parlanti e il tempo. Ma la massa stessa, pur essendo uno dei fattori determinanti, “non può esercitare la sua sovranità neppure su una sola parola” .
Gli Stati totalitari, per la loro stessa natura, non lasciano la lingua libera di seguire il suo corso naturale. Al contrario, tentano, con interventi dirigistici di forzarne e di deviarne il cammino. Viene così impressa un’accelerazione da parte di un potere extra-linguistico “che provoca una “coartazione dei valori simbolici e una semanticità strumentalizzata” . E’ però vero che, nella storia recente, talvolta anche Stati non totalitari hanno tentato di forzare la lingua . Resta il fatto, tuttavia, che, agli Stati totalitari spetta, questa caratteristica, non per accidente, ma per essenza. In altre parole, la violenza sulla lingua è uno dei tratti pertinenti e irrinunciabili di questa forma-Stato.
Pertanto appare necessario e preliminare, esaminare i caratteri originari del totalitarismo, a partire dalla parola stessa che lo nomina e dalla sua genealogia.
Il libro di Hannah Arendt, che, forse più di tutti ha contribuito a diffondere questo termine, e che, lo richiama nel titolo “Le origine del Totalitarismo”, non è però di grande aiuto proprio per lo studio di queste stesse origini.
Il termine è nato in Italia ed è, anzi, da considerare tra i nostri tipici prodotti nostrani .
Dapprima è stato usato, con valore negativo, in polemica con Mussolini, dall’antifascismo italiano: Giovanni Amendola , Luigi Sturzo , Lelio Basso . Poi lo stesso Mussolini se ne è appropriato, dandogli un valore positivo, in un memorabile discorso ai sindaci . Qualche anno più tardi questa parola ha avuto il suggello, sempre per mano del duce stesso, da parte dell’Enciclopedia Treccani . Perfino Antonio Gramsci, dal carcere, partecipava al dibattito sul termine e ne spiegava il significato . L’insegnamento sullo Stato totalitario veniva impartito anche nelle scuole . Giovanni Gentile nell’evocare questo concetto si rifaceva all’accezione hegeliana di realtà etica . Ma proprio questo riferimento era da parte dei nazional-socialisti motivo di polemica . Infatti, gli ideologi della Germania hitleriana negavano, perfino, che il III Reich nazista fosse, a differenza di quello italiano, uno Stato totalitario .
Solo a partire dal 1931, vale a dire sei anni dopo il discorso di Mussolini ai sindaci, Carl Schmitt e il suo allievo Ernst Forsthoff , elaborano il concetto di Totale Staat (Stato totale), “a metà strada tra la «mobilitazione totale» di Jünger e lo Stato totalitario del fascismo italiano” . Secondo Schmitt, dalla guerra era emersa una forza nuova capace di statalizzare la società civile . Aggiungeva Schmitt, che lo Stato veniva definito dallo jus belli, vale a dire, “dalla possibilità di fare la guerra e quindi, spesso, di disporre apertamente della vita degli uomini” . Tale distinzione insieme al primato italiano per questa forma Stato veniva rivendicata anche, con autorevolezza, da parte fascista . Del resto non va dimenticato che, fin dal 1926, nel Mein Kampf, lo stesso Hitler tendeva a prendere le distanze dalla concezione totalitaria fascista, spiegando che lo Stato non doveva essere un fine, ma un mezzo . Di tutto questo dibattito non c’è traccia nel libro di Hannah Arendt. L’origine del termine non viene indagata, fatto sorprendente per un’allieva di Heidegger il quale insegnava ad “ascoltare la saggezza delle parole”. Addirittura il fascismo italiano non viene nemmeno considerato nel novero degli Stati totalitari. Questa esclusione può spiegarsi, con il fatto che il progetto iniziale di Arendt era uno studio sul razzismo e sul nazismo . D’altra parte, se è vero che Arendt presenta il totalitarismo come una sintesi di diversi elementi quali: antisemitismo, imperialismo, colonialismo e razzismo, ancor meno si capisce l’esclusione dell’Italia fascista. Tra le novità introdotte dal Totalitarismo, Arendt annovera anche “i campi di concentramento e di sterminio”, che “servono al regime totalitario come laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio assoluto sull’uomo” . Ma come va intesa la congiunzione “e” dell’espressione “campi di concentramento e di sterminio”? Si tratta di un’endiadi (i campi di concentramento sono anche di sterminio) o di semplice congiunzione di due sintagmi (ovvero i campi di sterminio e di concentramento sono di due tipologie distinte)? Questa distinzione non è chiara . In proposito non va dimenticato che il fascismo aveva, come sua istituzione originale, fin dal 1926, il confino di polizia .
Nello stesso tempo rimangono perplessità, con riguardo agli elementi ricordati da Arendt, sull’inclusione, tra i paesi totalitari, dell’Unione Sovietica, che aveva, sì, i Gulag, ma fra i suoi caratteri costitutivi non annoverava l’antisemitismo, e, meno che mai, un progetto di soluzione finale.
La distinzione, da parte di Arendt, tra regime nazista e stalinista è molto debole. Si riduce ad affermare che l’eliminazione fisica, giunta a perfezione nei campi nazisti, non era la regola in quelli stalinisti. C’è, nel libro, in merito, solo un brevissimo accenno alla testimonianza di una donna sopravvissuta a entrambi i campi, relegato in una nota a piè di pagina . E’ evidente che tra i diversi regimi ci troviamo in presenza di somiglianze e differenze. Appare lecito quindi parlare di diversi totalitarismi, come, dalle stesse fonti “totalitarie”, non si è esitato a riconoscere .
Ma c’è un'altro termine che più di totalitär può essere considerato la parola chiave per comprendere e spiegare la lingua nazional-socialista.
Questo è almeno il punto di vista di Jean-Paul Faye, studioso di formazione strutturalista , il quale sulla scorta dello studio di questa parola ha inaugurato una serie di ricerche sul linguaggio totalitario tra cui quella che, forse, rimane la più completa e ponderosa sull’argomento . In un recente libro intervista Faye racconta la scoperta di questa parola, la sua genealogia e l’importanza assunta nella sua ricerca . Gli ideologi nazisti, come abbiamo visto , criticavano la filosofia fascista che poneva lo Stato a fondamento della nazione. Per loro, invece, lo Stato non era altro che un mezzo al servizio della «völkische Gemeinschaft», binomio intraducibile in italiano, ma che a un dipresso, può tradursi come la comunità identitaria fondata sulla razza.
Il termine «völkisch» è fondamentale per comprendere la natura del nazismo. La campagna di “rettificazione ideologica” per fissare compiti e finalità del nazional-socialismo fu aperta da Alfred Rosenberg, considerato la personalità più autorevole in materia, sull’organo del partito che non solo nel nome del partito stesso, ma anche in quello della sua testata, richiamava questo termine .
Secondo Faye, la parola “völkisch”, chiave di volta per comprendere la peculiarità del nazismo, “introduce un enigma” . Heidegger, nel 1933, la ripete con insistenza nel suo discorso sul rettorato . Faye che diffonde per primo in Francia questo discorso traduce “völkisch” con il termine “raciste” (razzista). Le polemiche si scatenano. Perché – si dice – tradurre questo termine, che ha nella sua radice Volk (popolo), con “razzista” e non invece con “popolare”?
Faye risponde che dal 1880, cioè dalla ripresa dell’antisemitismo in Europa, questo termine in Germania vuol dire “antisemita” o più esattamente “razzista”. Anzi, più in generale, ricopre il campo semantico di ogni esclusione. Il bersaglio è il Welsch , vale a dire tutto quello che viene dall’occidente. Così, almeno era il Welsch in origine. Ben presto, però, il termine Welsch finisce col coprire, semanticamente, anche i polacchi e, ancora di più, gli slavi. “Ma il bersaglio principale sono gli ebrei. Il termine «völkisch» diviene veramente sinonimo di «antisemita» e praticamente, nel 1900, sostituisce la parola «antisemita» nella lingua politica usuale dell’estrema destra tedesca” . Infatti, nell’uso comune la parola «antisemita» appariva poco rispettabile. Ed è così che, ad esempio, il partito antisemita degli anni 1886-1888, va a cedere il nome e il posto ai partiti «völkisch» . «Völkisch» è la parola giusta per consentire al nazismo di diffondersi. E’ talmente misteriosa – spiega Faye - da essere inattaccabile. Non è vulnerabile, perché non le si può rimproverare questo riferimento al popolo [Volk], ma, nello stesso tempo, in un batter d’occhio, si sa subito di cosa si parla. Si sa che questa parola vuol dire che esiste un gruppo sociale da abbattere, lo stesso che indica la parola «antisemita» . Di questo ne erano ben consapevoli gli ideologi nazisti che non lasciavano dubbi in proposito quando spiegavano il significato di «völkisch», come “comunità naturale del popolo” e “unità di vita biologica” legata allo spazio natale . Insomma: terra e sangue.
All’ingresso dell’inferno di Auschwitz, campeggiava la scritta, tuttora presenta a futura memoria: Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) .
Secondo Aldo Enzi, «Arbeit» è una delle parole chiave del pensiero nazista .
La frase, a prima vista, può sembrare una derisione e una menzogna sfrontata, un’ulteriore ingiuria nei confronti dell’umanità. Ma per Enzi, non è così. In particolare non è una “menzogna sfrontata” rispetto alla concezione del lavoro come mezzo di elevazione dell’uomo. Né, di sicuro, i nazisti l’avevano scritta con questo intento. Si tratta del risultato, spinto alle sue estreme conseguenze di una delle “verità” del capitalismo, cioè del lavoro spersonalizzato indifferenziato, astratto, ma fatto coincidere con la realizzazione della propria identità.
In linea con questa logica l’Arbeit non è solo un dovere verso lo sviluppo produttivo della Gemeinschaft (la comunità identitaria), ma viene anche identificato con il pieno sviluppo dell’individuo, così come atteso dall’ideologia nazista.
Con questa concezione è possibile portare ai limiti estremi il lavoro e il suo sfruttamento. «Arbeit» perde nel lessico della Germania nazista, ogni riferimento allo sfruttamento, all’alienazione, all’antagonismo tra capitale e lavoro. “Il suo campo semantico si allarga al punto che «Arbeiter» (lavoratore) si identifica con il « Volk » (popolo)” .
Arbeiter è anche il soldato. Guerra e lavoro si identificano nel segno della «völkische Gemeinschaft», vale a dire nel segno della comunità identitaria fondata sulla razza. Con l’associazione di Arbeiter a Krieg (guerra) si contribuisce anche al superamento dell’orrore che poteva suscitare da sola la parola Krieg all’indomani di una guerra sanguinosa e perduta. L’uso di Krieg, da solo, così come di altri termini in grado di evocare la violenza veniva volutamente evitato . Per esempio l’invasione della Polonia, veniva definita un’azione di polizia. In effetti per i nazisti si trattava, molto semplicemente, di un lavoro come un altro, da portare a termine con distacco. Senza passione e senza orrore . In quest’ordine di idee si può spiegare che la guerra diventi un mezzo naturale e necessario per produrre la pace, e si spiega anche il paradosso di Auschwitz, campo di “lavoro” (Arbeit), in cui la principale attività era la produzione di morti ad opera delle stesse vittime: produzione di morti a mezzo di morti . Abbiamo volutamente parlato di produzione di morti e non di morte (al singolare). Lo abbiamo fatto in accordo con Giorgio Agamben, secondo il quale, nel caso di Auschwitz non si può parlare propriamente di “morte”, ma semmai di fabbricazione di “cadaveri” . Più che il numero delle vittime, è proprio il modo industriale di uccidere che lascia sgomenta Hannah Arendt e che le fa dire “Non sarebbe mai dovuto succedere” .
Il processo di produzione, come ricostruito dalle ricerche storiche successive e dalle stesse confessioni delle SS , era scandito, secondo i principi della divisione del lavoro di Taylor e della catena di montaggio di Ford. Quindi per i tedeschi non si trattava tanto di combattere una guerra, quanto di fare un lavoro come un altro. Né più, né meno.
Un lavoro da fare, per quanto possibile, in pace.
Del resto, lo stesso Hitler, a modo suo, andava ripetendo di desiderare arden-temente la pace.
La pace teutonica (deutscher Frieden). Non meraviglia, allora che ogni atto di aggressione veniva presentato come espressione di “Friedensbereischaft” (propensione alla pace). Celebre il “discorso della pace” di Hitler che riuscì a commuovere profondamente il popolo tedesco e a rassicurare il presidente Roosevelt . La ricorrente Arbeitseinsatz (mobilitazione del lavoro), pervasiva al massimo grado, si esercitava nel segno di una simbiosi civile-militare. Il sacrificio dell’alterità era totale. Il singolo perdeva la propria identità in cambio dell’identità generica di: lavoratore, soldato, tedesco, ariano.
In quest’ambito il termine “Arbeit” assume, come già accaduto nell’Italia fascista con il termine “lavoro”, un significato interclassista .
Ma nella Germania nazista c’è, come evidente, qualcosa di più.
Nel lessico della Germania nazista, esiste un termine, Arbeitgemeinschaft, (collettività di lavoro) che indica la comunità di interesse tra capitale e lavoro.
Il termine era in uso anche prima dell’avvento del nazismo, ma con il nazismo assume connotazioni “razziali e nazionalistiche” .
Sul tema del lavoro indifferenziato tipico dell’ideologia capitalistica, e sul fatto che questa concezione ha finito col contagiare anche i sostenitori delle forme sociali alternative, socialistiche o comunistiche, i quali non riescono ad immaginare altra fonte di ricchezza sociale se non il lavoro per tutti, prende la parola Walter Benjamin.
Lo fa nelle sue Tesi di Filosofia della Storia, scritte poco prima di morire, nel 1940, con una chiara allusione, non solo alle socialdemocrazie, ma anche all’Unione Sovietica. Richiamandosi a Marx e alla critica da parte di quest’ultimo al programma di Gotha che, appunto definiva il lavoro come “fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura”, ricorda come, secondo Marx, l’uomo, dal momento che non possiede altra proprietà se non la sua forza lavoro, finisce col diventare lo schiavo di altri uomini. Benjamin considera, quindi, tipico del marxismo volgare e del “falso messianismo” “questo concetto della natura del lavoro” che “non vuol vedere i regressi della società” mentre “mostra già i tratti tecnocratici che appariranno più tardi nel fascismo” .

Parlare e pensare nel Lager
Il tema dell’incomunicabilità a Primo Levi non è mai piaciuto . Jean Amery, a sua volta, sostiene che, sulle difficoltà di comunicazione dell’uomo moderno, si sostengono non di rado tesi assurde che sarebbe opportuno tacere . Secondo Levi, si può sempre e si deve sempre comunicare. L’uomo è biologicamente predisposto a farlo . Un parlante non può sottrarsi alla comunicazione. Nella tradizione del pensiero occidentale questo è un dato acquisito. Anche per Aristotele un uomo che non dicesse nulla, che non rispondesse, che non facesse nessun discorso, non sarebbe un uomo. Nemmeno, addirittura, un animale. Sarebbe una pianta. Non è quella di Aristotele un’asserzione qualsiasi. E’ proprio su di essa che si fonda il principio di contraddizione, un pilastro della logica, il più forte di tutti i princìpi:

Ora, alcuni ritengono per ignoranza, che anche questo principio [di contraddizione] debba essere dimostrato: infatti, è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare. […] Tuttavia, anche per questo principio, si può dimostrare l’impossibilità in parola, per via di confutazione: a patto però che, l’avversario dica qualcosa. Se invece l’avversario non dice nulla, allora è ridicolo cercare un’argomentazione da opporre contro chi non dice nulla, in quanto, appunto non dice nulla: costui, in quanto tale, sarebbe simile a una pianta”.

Sembrerebbe quindi, che l’ingresso nel mondo del linguaggio sia qualche cosa che l’uomo non possa revocare.
Ma, al contrario, Auschwitz, come sostiene Agamben, è “la confutazione radicale di ogni principio di comunicazione obbligatoria” .
Ad Auschwitz, il problema dell’incomunicabilità e della mancata comprensione, si pone in modi drammatici. Non è solo il problema della lingua straniera che, nel campo, per esempio, poneva in grosse difficoltà italiani, greci, francesi, slavi . La vita del lager si svolgeva in una “situazione sociale” priva di un centro tematico, da cui si potessero sviluppare delle relazioni. I pochi segnali erano di minaccia, di avvertimento. Oppure di difesa. I pochi ed effimeri atti di solidarietà creavano solo delle complicità momentanee . Secondo Amery, per gli intellettuali, poi, questa situazione era ancora più difficile da sostenere. Infatti, l’intellettuale era meno adattabile degli altri alla lingua del lager, fatta di ordini, imprecazioni, interiezioni . Prima di tutto, come accennato c’era il problema della diversità delle lingue. Le nazioni rappresentate erano circa 40. Di conseguenza, si era sviluppato un rudimentale codice linguistico . La lingua del Lager era composta da un ristrettissimo numero di segnali, un misto d’esclamazioni tedesche, tratte da ben definiti sottocodici linguistici tedeschi: quello burocratico, militare, carcerario, politico (del partito nazionalsocialista) e altre provenienti dal gruppo nazionale maggioritario, in particolare il polacco, nucleo dominante tra i prigionieri e anche tra i Kapos . Spesso veniva adattato il polacco al tedesco “previ adattamenti morfologici ottenuti mediante l’uso di diminutivi tipici dello slavo, di desinenze di genere e di numero, e di sintagmi multilinguistici” . La parola umana non affiorava . Racconta Levi che i primi giorni di Lager sono impressi nella sua memoria come un “film in grigio e nero, sonoro, ma non parlato” .
I prigionieri imparavano poche decine di parole. Non attraverso la traduzione, ma per imitazione acustica, secondo “lo schema impulso-reazione ” .
“Queste voci straniere - racconta Levi - erano incise nella nostra memoria come su un nastro magnetico, vuoto, bianco. Non ci ha aiutati a ricordare il loro senso, perché, per noi, non ne avevano […] Erano frammenti strappati all’indistinto: frutto di uno sforzo inutile ed inconscio di ritagliare un senso entro l’insensato. Erano l’equivalente mentale del nostro bisogno di nutrimento, che ci spingeva a cercare le bucce di patate nei dintorni delle cucine: poco più del niente, meglio del niente. Anche il cervello sottoalimentato soffre di una fame specifica” . L’addestramento, conferma Levi, avveniva con lo stesso sistema usato con i cani di Pavlov . Nell’arcipelago dei Lager tedeschi, ricorda Levi si era delineato un linguaggio di settore (oggi diremmo un sottocodice linguistico), il Lagerjargon (gergo del lager), a sua volta suddiviso in tanti sottogerghi, quanti erano i lager. Al ritorno in libertà, lo stesso Levi ha dovuto constatare una sorta di parallelismo (potremmo quasi dire una “equivalenza semantica”) con i gerghi dei gulag sovietici. “Ognuno di questi – ci dice Levi - trova il suo esatto riscontro nel Lagerjargon. La traduzione tedesca dell’Arcipelago Gulag […] non deve aver presentato molte difficoltà, o, se sì, solo terminologiche” . Per esempio alla parola del gergo del lager “prominent” corrisponde esattamente, nel gergo del gulag “Pridurki”. Entrambi indicano i prigionieri che hanno fatto carriera, una “componente indispensabile nella sociologia dei campi” . Un termine comune a tutti i Lager era “Muselmann”. Il prigioniero esausto estenuato, rassegnato, prossimo alla morte. Nel lager di Ravensbrück, l’unico femminile, lo stesso concetto veniva espresso con due termini quasi omofoni: “Schmutzstück” (immondizia) e Schmuckstück” (gioiello) . Il verbo usato per “mangiare” era “fressen” che nel tedesco viene adoperato con riferimento agli animali . Per “vattene” si usava l’espressione “haub’ab”, dal verbo “abhauen”, che equivaleva ad “andare all’inferno, levarsi di torno” . Gli stessi prigionieri, nelle loro scarne relazioni sociali usavano queste espressioni, cui si abituavano con grande sforzo . Ben presto lo stesso Levi si accorse che il tedesco parlato nel Lager, “scheletrico, urlato, costellato di oscenità e imprecazioni” aveva poco a che fare con il tedesco melodioso di Heine, ma che era una variante di quella che più tardi Klemperer avrebbe chiamato “Lingua Tertii Imperii” . Il lessico era ridotto ai comandi e allo stretto necessario per sopravvivere, mangiare, dormire, bisogni corporali . La lingua del Lager era “diretta, lapidaria, volgare”. Non esistevano parole per esprimere sentimenti. Serviva a indicare, a designare. Non permetteva di descrivere, spiegare, motivare, permettere, promettere. Le parole gentili erano rare. Gli argomenti vertevano sul mangiare, sulla malattie, sulle cose necessarie alla sopravvivenza. Insomma i prigionieri restavano quasi sempre muti. Usavano il linguaggio solo in condizioni di bisogno e di emergenza . Del resto, come ricorda Levi non esistevano parole adeguate per esprimere l’immensa sofferenza del dolore, della fame, del freddo, della paura, dell’inverno .
Senza parlare “la lingua ti si secca in pochi giorni e con la lingua il pensiero” . “Pensare” a una poesia, a un concetto filosofico era impossibile . Se, per qualche accidentale associazione veniva in mente un verso di una poesia, da questo non emergeva “alcun riferimento emozionale”. Insomma, “la poesia non trascendeva più la realtà” . Amery cerca disperatamente nel lager una “manifestazione sociale dello spirito”, ma non ci riesce, nemmeno quando incontra, all’interno del campo, un famoso filosofo della Sorbona . Tutti i problemi metafisici, legati all’essere, diventano inconsistenti. Amery non rinuncia, nelle sue memorie, all’occasione per una polemica, con Heidegger, filosofo da lui poco amato e che, per questo motivo, nemmeno nomina direttamente, ma che si limita ad indicare con l’epiteto derisorio “il mago degli alemanni”. Dopo una descrizione caricaturale della differenza ontologica, argomenta che, si poteva “essere affamati”, “essere stanchi”, ma non si poteva “essere” semplicemente . E conclude che in nessun altro posto al mondo, come nel Lager, era impossibile “oltrepassare la realtà” . Nel Lager, lo spirito si dichiarava “incompetente” . Ma, aggiunge Amery, in ciò mostrando di dissentire da Levi , non è che fosse impossibile pensare. Al contrario il pensiero non dava mai riposo, e ad ogni passo giungeva a confini non oltrepassabili . Questa affermazione meriterebbe di essere discussa, perché rischia di essere fraintesa. Infatti, secondo un’interpretazione della ermeneutica contemporanea, lo scontrarsi con limiti del linguaggio (e del pensiero), la ricerca mai soddisfatta della parola giusta, è uno degli aspetti che contraddistingue un’esistenza autentica rispetto ad una inautentica . Ma con ogni probabilità, se pensiamo a quanto poco prima affermato a proposito della impossibilità di “essere” nel Lager, questa interpretazione viene a cadere. E’ lo stesso Amery a fornirci una chiave interpretativa. “Nel Lager uscimmo denudati, derubati, svuotati, disorientati e ci volle molto tempo, prima che riprendessimo il linguaggio quotidiano della libertà . Sartre, aveva impiegato trenta anni per sbarazzarsi del tradizionale idealismo filosofico . “Noi”, commenta Amery, “abbiamo fatto molto più in fretta” . Il “verbo”, conclude Amery, perisce ogni qual volta la realtà pretende di essere una totalità .

La lingua e la morte nel Lager
In una conferenza su “l’Essenza del linguaggio”, Martin Heidegger individuava un rapporto costitutivo che lega la morte al linguaggio. L’uomo può fare l’esperienza della morte, l’animale no. Allo stesso modo, l’uomo può parlare, l’animale no:

I mortali sono coloro che possono esperire la morte come morte. L’animale non lo può. Ma anche il parlare è precluso all’animale. Come per un lampo improvviso balza allo sguardo il rapporto costitutivo tra morte e linguaggio, ma ancora non lo si è tematizzato. Esso ci può tuttavia suggerire qualcosa sul modo con cui l’essenza del linguaggio ci chiama a sé e ci tiene presso di sé, nel caso risulti che anche la morte fa parte di ciò che ci esige per sé .

A sua volta, Primo Levi, senza probabilmente conoscere questo passo di Heidegger, arriva per altre vie, sicuramente meno teoriche e più pratiche, a una conclusione che, a prima vista (ma solo a prima vista), presenta molte somiglianze con la considerazione di Heidegger sulla relazione che lega uomo, linguaggio e morte. Ma, come tenteremo di mostrare, la somiglianza è affatto ingannevole. Non esiste, come vedremo, alcuna relazione tra “i mortali, “la morte” e il “linguaggio” come li intende Heidegger nella sua Conferenza, da un lato, e i prigionieri, la morte e la lingua del Lager, dall’altro.
Levi si era accorto, fin dai primi giorni di prigionia, che per lui e per i suoi compagni, c’era uno strettissimo rapporto tra la conoscenza della lingua del lager e la speranza di evitare la morte. La lingua tedesca era uno spartiacque per la stessa sopravvivenza. Gli ordini venivano impartiti dalle SS, una prima volta con voce tranquilla, poi con voce alta e rabbiosa. Siccome tutti erano terrorizzati e nessuno capiva il tedesco, si passava ai pugni . A Mauthausen, il nerbo di gomma, veniva chiamato «der Dolmetscher» (l’interprete) perché “si faceva capire da tutti” . Levi sapeva solo poche parole di tedesco, ma si rese conto ben presto che il suo scarso “tesoro di parole” era veramente un tesoro di parole” . Decide di prendere lezione di tedesco da un prigioniero alsaziano, pagando con l’unica moneta corrente: “il pane”. E mai pane - conclude - fu meglio speso.
Ci fu, nel Lager, un caso, estremo, di un bambino, di circa tre anni, che non sapeva parlare. Nel minuscolo avambraccio recava, come gli altri prigionieri, il marchio di Auschwitz. Non aveva mai avuto una madre. Non aveva mai avuto una lingua madre. Moriva poche settimane dopo la liberazione del campo, “libero, ma non redento”. Forse era nato proprio ad Auschwitz. Moriva senza aver mai visto un albero. Senza un nome. Senza un ricordo. “Il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva”. Ma moriva senza, forse, aver mai detto, o capito una parola . Nulla resta di lui. Non può testimoniare. Quello che di lui si sa è dovuto alle parole di Primo Levi, che lo ricorda con il nome di Hurbinek. Hurbinek non può testimoniare perché non ha lingua. “Testimonia” attraverso le parole di Levi. Ma Levi sa bene , come fa notare Agamben, che “nemmeno il superstite può testimoniare integralmente” . “La traccia che la lingua crede di trascrivere dell’intestimoniato, non è la sua parola. E’ la parola della lingua, quella che nasce dove la lingua non sta più nel principio, decade da esso per – semplicemente - testimoniare «non era luce, ma era per testimoniare della luce»” .
In ogni organizzazione sociale e, a maggior ragione, in ogni istituzione totale, la sincronizzazione e la coordinazione del tempo stabilisce degli obblighi esterni. La sua stessa scansione, viene utilizzata come strumento per l’esercizio del dominio.
Nel Lager c’era qualche cosa di più. Il Lager penetrava profondamente non solo nel senso spaziale, ma anche in quello temporale di ciascun essere umano. Il Lager non si contentava di dominare i corpi, cancellando il collegamento fra passato e futuro. Con la sua legge costringeva gli individui, nei movimenti più interni della coscienza, a vivere solamente l’istante presente .
Non c’erano orologi nel Lager . Il tempo veniva misurato dalla luce del sole, dalle marce forzate di trasferimento dal campo al cantiere, dalla giornata di lavoro (fino a 11 ore ), dai due estenuanti appelli quotidiani . I prigionieri ricorrevano, quasi per istinto a una strategia di difesa. Si rappresentavano un sistema di riferimento mentale in intervalli “uguali che tuttavia scorrevano a diverse velocità” . Robert Antelme considerava il tempo passato come “tempo guadagnato” e lo scandiva in periodi di differente lunghezza che trascorrevano con diverse velocità . Non molto diversamente, Primo Levi si rappresentava un tempo che, istante per istante, doveva essere “perforato” (oggi diremmo “obliterato”) per dimenticarlo e metterlo alle spalle . Ma sia la durata esterna del tempo, sia quella interna potevano, in qualsiasi momento essere interrotte bruscamente dall’irruzione della morte. Non c’era né un prima, né un dopo, ma solo un “adesso“ e un “non adesso”. Dominava un tema esclusivo: quello della morte. Il pericolo della morte “scompagina” il flusso del tempo . La morte era sempre presente. Bastava un litigio, una piccola disobbedienza, un ordine capito male. Le selezioni per la camera a gas erano ricorrenti. La morte era sempre in agguato. Dietro l’angolo. Si viveva in mezzo a mucchi di cadaveri, e non ci si faceva più caso. Il prigioniero del Lager non viveva porta a porta, ma addirittura nella stessa stanza con la morte . Anche il soldato in guerra vive in stretto contatto con la morte. Ma il paragone, secondo Amery, non regge. In entrambi i casi, è vero, la vita non vale granché. Ma al soldato lo Stato ordinava di resistere, non di morire. Il soldato dava in sacrificio la propria vita e moriva la morte dell’eroe: il prigioniero quella delle bestie da macello. E il soldato non era solo il bersaglio, ma anche il veicolo della morte . Crollava così ogni concezione “estetica” della morte. Ad Auschwitz non c’era spazio per pensare la morte nella sua forma letteraria, filosofica, religiosa, musicale. Si andava alla morte accompagnati, non “dalla musica del Tristano”, ma solo dalle “urla delle SS e dei Kapos” . Nel Lager ogni morte veniva registrata con la formula Abgang durch Tod (abbandono [del campo] causa decesso). Chi, specie se intellettuale, voleva stabilire un rapporto diverso con la morte si trovava di fronte alla realtà del lager. Secondo Amery, “al pari del suo compagno non spirituale, anche il prigioniero intellettuale si occupava non della morte, ma del morire” . In particolare di come si poteva o si doveva morire: se per gas, per sfinimento, se con una iniezione di acido fenico, con una botta in testa, con un colpo di arma da fuoco. O se suicidarsi, correndo verso il filo elettrico. “Il morire”, secondo Amery, che, qui, con ogni probabilità rifà, polemicamente, il verso ad Heidegger , “era onnipresente, ma si sottraeva” . In polemica con Amery e, forse, in difesa di Heidegger, Agamben osserva, che, sì, nel campo era impossibile “pensare la morte”, ma non tanto perché il pensiero dei modi di morire la rendesse superflua, quanto perché la morte era stata resa, come ha fatto osservare anche Levi , “triviale, burocratica e quotidiana” .
Tutti gli storici sono concordi nell’affermare che “i casi di suicidio durante la prigionia nel Lager erano rari” . Non possediamo statistiche ufficiali o attendibili . Ma la convergenza degli storici su questo punto è indubbia, anche se, in proposito esiste il parere discorde di Bruno Bettelheim. Quest’ultimo, pur riconoscendo la scarsità del numero di suicidi veri e propri, ha preso in senso molto ampio il concetto di suicidio e ha definito l’arrendevolezza con la quale gli internati si lasciavano condurre alle camere a gas senza resistenza: «una forma di suicidio che non richiedeva quell’energia che è altrimenti necessaria per decidere il suicidio e programmarlo»” . Si tratta di un parere isolato, anche se autorevole, da parte di uno studioso che aveva l’esperienza diretta dei campi di concentramento , maturata però in anni precedenti l’avvio della “soluzione finale” . Si può obbiettare con Langbein e con Amery, che non era necessario un dispendio di energia: il filo dell’alta tensione che circondava il campo era a portata di mano ed “era in fondo una soluzione buona e abbastanza sicura” .
Quindi i motivi dello scarso numero di suicidi, come fanno notare la gran parte degli storici e dei testimoni, sono di altra natura. Primo Levi tenta una spiegazione che appare convincente. “Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato, perché, come gli animali, eravamo ristretti al momento presente” . Ma, prima di tutto, osserva Levi, il suicidio è degli uomini e non degli animali. Poi c’era da pensare alla fame, alla fatica, al freddo, alla sete, a evitare i colpi dei Kapos. Mancava la concentrazione per occuparsi della morte . Infine, secondo Levi, nella maggior parte dei casi, il suicidio nasce da un senso di colpa che nessuna punizione è riuscita ad attenuare, ma siccome, con l’internamento, si stava già scontando la punizione non c’era nessuna colpa ulteriore da espiare . Amery dà una spiegazione più filosofica: nel campo mancava l’angoscia della morte. “Quando si è liberi è possibile pensare alla morte senza per forza pensare al morire, senza essere angosciati dal morire. In una condizione di libertà la morte a livello spirituale può, almeno in linea di principio, essere distinta dal morire: in senso sociale, proiettando su essa considerazioni sulla famiglia che rimane, sul lavoro che si lascia, e in senso filosofico attraverso lo sforzo di avver¬tire nell’esistere un alito del Nulla” . Per il prigioniero, a differenza dell’uomo libero, la morte non possedeva alcun “aculeo che facesse male, che lo spingesse a riflettere” . Il prigioniero del campo, in altre parole, aveva sì conosciuto il terrore di fronte a tanti modi di avere paura, ma non l’angoscia della morte. In sintonia con Amery, Langbein osserva che “dove il confronto con la morte faceva parte della quotidianità, cercare la morte perdeva tutto l’aspetto di eccezionalità che altrimenti avrebbe potuto esercitare una sua seduzione” . Zywulska, membro del Sonderkommando di Birkenau, la squadra speciale composta dagli internati addetti alle camere a gas, vuole continuare a vivere per potersi vendicare . Benedikt Kautsky non si suicida per orgoglio . Secondo lo stesso Langbein il prigioniero vuole sopravvivere per poter testimoniare . Dello stesso parere Primo Levi che a distanza di anni rivendicherà, in un’intervista, di essere in pace con se stesso proprio per aver testimoniato, per aver avuto “occhi e orecchie ben aperti tanto da poter raccontare in modo veridico, preciso, quello che ho visto” . I casi di suicidio durante la prigionia erano rari. E’ dopo la prigionia, al contrario, che ci sono stati “molti casi di suicidio” . L’ora della liberazione non è stata “lieta e spensierata”. Dopo essersi voltati a guardare tutto quello che si era dimenticato e ritenuto perduto, dopo essere tornati uomini “responsabili” irrompeva “sempre un momento critico che coincideva con un’ondata di ripensamento e di depressione” .
Voltarsi indietro, testimoniare significa accollarsi un peso insostenibile che può finire con lo schiacciare.
Un anno dopo aver pubblicato queste riflessioni, l’11 aprile 1987, Primo Levi si toglieva la vita.
Nessuno, con certezza, può coglierne le ragioni. Le motivazioni profonde di un suicidio sono sempre personali, misteriose. In qualche misura, indicibili.
Ma si può pensare che, forse, neanche Primo Levi, che pure aveva mostrato una gigantesca forza, nell’affrontare le terribili prove imposte dalla vita, ce l’avesse fatta a resistere. Dopo essersi “voltato indietro” e dopo aver reso testimonianza, forse, un peso non più sostenibile ha finito con lo schiacciarlo.
Proprio lui, che pure, appena un anno prima, nel ricordare Amery, come “il filosofo suicida e, teorico del suicidio” aveva ammonito che “gli scopi della vita sono la difesa ottima contro la morte: non solo nel Lager” . Jean Amery si era già suicidato nove anni prima, nel 1978. Bruno Bettelheim si toglierà la vita tre anni dopo nel 1990.
Il Lager continua a uccidere.

Il Muselmann e la morte negata
Tutti i musulmani, racconta, Levi, hanno la stessa storia. Entrati nel campo sono stati sopraffatti. Non si sono adeguati in tempo. Non hanno imparato il tedesco e non sono stati, così, in grado di discernere nulla nel groviglio dei pericoli e dei divieti del Lager. Non hanno cercato di procurarsi razioni alimentari extra , né relazioni personali indispensabili alla sopravvivenza. Nel giro di poche settimane il loro corpo e la loro mente è già in sfacelo, e nulla li potrà salvare dalla morte per gas o per deperimento . “La loro vita è breve, ma il loro numero è sterminato. Sono loro i Musulmänner, i sommersi il nerbo del campo […]. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla. Essi - continua Levi - popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del mondo, sceglierei questa immagine che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero” .
Sono il “nerbo del campo” . Ma quasi nessuno ne vuole parlare. I compagni gli voltano le spalle. Temono di vedere in loro l’immagine di quello che potranno divenire essi stessi .
Neppure dopo molti anni i superstiti ne vogliono parlare .
Amery non fa eccezione, ma è uno dei pochi che ha l’onestà intellettuale di confessarlo: il Muselmann “non possedeva più un ambito di consapevolezza […] Era un cadavere ambulante, un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia; dobbiamo, per quanto dolorosa ci appaia la scelta, escluderlo dalle nostre considerazioni” . Il pittore Aldo Carpi , internato a Gusen, per cercare di sopravvivere dipingeva quadri per i tedeschi. Ma deve lamentare che “nessuno vuole scene e figure del lager, nessuno vuol vedere il Muselmann” . Sono i “veri paria del Lager” . Sono “il bersaglio preferito delle battute grossolane” .
“Gli anziani” del Lager si rendevano presto conto se un nuovo arrivato, era predestinato a diventare un Muselmann. Nel suo viso si leggeva la morte prossima. Lo si capiva nei primi 8 -10 giorni . I primi sintomi erano l’estrema magrezza, riduzione dei muscoli, occhi incavati nelle orbite, zigomi sporgenti, guance incavate, mascelle prominenti. Le membra del corpo diventate ossa ricoperte da pelle floscia di colore grigio giallognolo . La loro morte individuale non lasciava un vuoto: infatti nella serie ognuno è di troppo al proprio vicino e il posto, che lascia libero morendo, viene immediatamente occupato da un altro . Nel campo, la morte può colpire chiunque in qualsiasi momento. Riprendendo, con tutta evidenza, il concetto di doppia massa, di Elias Canetti , Sofsky sostiene che tutta la società del Lager era un’«entità a termine che la morte di massa scindeva in una massa doppia» : quella, crescente dei morti e quella dei sopravvissuti destinati, anche loro, un giorno a far parte della massa dei cadaveri . Quando sono prossimi alla morte, i Musulmänner subiscono, da parte dei loro compagni, azioni di sciacallaggio e vengono derubati delle coperte o delle scarpe. Tanto non ne hanno “più bisogno” .
L’origine del termine Muselmann è ignota. Forse fa riferimento al presunto fatalismo dei popoli di fede islamica, o ai movimenti tipici della preghiera araba.
In ogni caso – fa notare Agamben – è certo che, con una sorte di feroce autoironia, gli ebrei sanno che ad Auschwitz non moriranno come ebrei .
Il Muselmann si trova a metà strada tra la vita e la morte. Il potere assoluto, prima di uccidere, adotta una politica che ha lo scopo di degradare e trasformare la condizione umana. La sua figura esteriore esprime compiutamente il processo di disumanizzazione in corso . Pensavano a qualche cosa i Musulmänner? E a che cosa pensavano? Si è interpretato il loro stato interiore come una perdita di volontà, di distruzione dello spirito vitale. Ma sarebbe fuorviante identificare tale rassegnazione con quella che coglie il moribondo . Il loro destino non ha nulla a che fare con quello che significa morire. Il Muselmann si spengeva dopo un lungo processo di degrado. Moriva come un orologio quando si ferma .
Un quadro critico della loro condizione, tracciato da Wladyslaw Feikel, medico con lunga esperienza di Auschwitz, riconduce a una malattia di denutrizione . La condizione del Muselmann, però, non è spiegabile con categorie nosologiche . Non si trattava di una malattia vera e propria . Le sue trasformazioni psichiche e fisiche erano intrecciate fra di loro e portavano alla distruzione delle relazioni sociali e “all’annientamento simultaneo della socialità, della vita activa e della vita mentalis” . Il loro agire sprofondava sotto la soglia della vita animale, e si riduceva solo alla reazione istintiva, quando qualcuno li provocava.
L’agire, secondo Hannah Arendt, è il medium dell’identità sociale e individuale . Quando l’agire viene meno, si atrofizza la vita stessa. Con le proprie azioni l’uomo “manifesta se stesso”, “lo comunica ad altri”, e “dà vita a un nuovo inizio”. Ma azione e discorso sono connessi strettamente . Il Muselmann non agisce, e nemmeno parla. La sua flebile comunicazione consiste nella “prossimità corporea” che prende il “posto del linguaggio” .
Senza azione e senza discorso, aggiunge Arendt, si hanno “non uomini che agiscono, ma robot che realizzerebbero ciò che, umanamente parlando, rimarrebbe incomprensibile. L’azione senza discorso non sarebbe più azione perché non avrebbe più un attore, e l’attore, colui che compie gli atti, è possibile solo se, nello stesso tempo, sa pronunciare delle parole” .
Con il Muselmann il potere nazista fonda un terzo regno, tra la vita e la morte e “attesta il completo trionfo sull’umanità dell’uomo. […] Il Muselmann è la figura guida della morte di massa, una morte provocata dalla fame, dall’abbandono, dall’estinzione dell’anima” . Attraverso la figura del Muselmann il potere nazista, voleva contestare l’appartenenza alla stessa specie umana. “Ci sentivamo contestati - dirà Antelme - come uomini”, come individui della specie […]. La negazione della qualità d’uomo provoca una rivendicazione quasi biologica di appartenenza alla specie umana” . Primo Levi parla di non-umana esperienza: “Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi. E dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai te¬deschi disfatti. E uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere” . Per Agamben il musulmano segna la “soglia in cui l’uomo trapassa in non-uomo e la diagnosi clinica in analisi antropologica” . Non solo, ma nella figura del musulmano transitano senza soluzione di continuità, l’umanità e la non-umanità, la vita vegetativa e quella di relazione, la fisiologia e l’etica, la politica e la medicina, la vita e la morte. Per questo il suo “terzo regno”, tra l’uomo e l’animale, è “la cifra perfetta del campo, del non-luogo dove tutte le barriere disciplinari vanno in rovina, tutti gli argini tracimano” . Insomma Auschwitz è “il luogo in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano” . La loro morte non può essere chiamata morte. Addirittura, per Agamben, “le SS avevano ragione a chiamare Figuren i cadaveri” . Infatti, dove “la morte non può essere chiamata morte, nemmeno i cadaveri possono essere chiamati cadaveri” .
Sulla degradazione della morte nel campo così interviene Adorno, in polemica con la preghiera di Rilke che chiede a Dio di dare una morte propria:

Ciò che i nazionalsocialisti hanno perpetrato su milioni di uomini, l’ispezione dei vivi come se fossero già morti, e poi la produzione di massa e la riduzione dei costi della morte, ha proiettato in anticipo la sua ombra su quelli che si fanno ispirare al riso dai cadave¬ri. […] La famosa preghiera di Rilke in cui si chiede a Dio di dare a ciascuno la sua «morte personale», non è che un miserevole inganno, con cui si cerca di nascondere il fatto che ormai gli uomini crepano e basta .

In un'altra occasione Adorno noterà che nei campi di concentramento è stato “cancellata la linea di demarcazione tra la vita e la morte” . E aggiungerà che il lager ha creato “uno stato intermedio, scheletri viventi e individui in decomposizione, vittime a cui il suicidio, la risata di Satana sopra la speranza di eliminare la morte, non riesce” .
Da una prospettiva diversa, con la “leggerezza“ che lo contraddistingue, interviene Vladimir Jankélévitch, il quale finisce con il convergere sulla sentenza di Heidegger di Essere e tempo, che la morte è un fenomeno della vita . A questa conclusione, perviene attraverso un percorso che parte da una relazione tra morte e vita legate da un nesso dialettico . Prende le mosse da un ragionamento di Bergson, secondo il quale l’occhio è sì l’organo della vista, ma in un altro senso è di ostacolo alla vista, e avere gli occhi significa vedere e al tempo stesso non vedere . Allo stesso modo per analogia, la morte, limita e pone fine alla vita, ma senza la morte l’uomo non sarebbe uomo. Si potrebbe dire che “senza la morte l’uomo non sarebbe un uomo, che proprio la presenza latente della morte fa le grandi esistenze conferendo loro il fervore, l’ardore, il tono specifici. Si può dire, quindi, che ciò che non muore non vive” .
Privare della morte, quindi, vuol dire, anche, privare della vita.

Con un po’ di ritegno Agamben cita Heidegger e il passo di un suo discorso pronunciato a Brema nel 1949, i cui il filosofo tedesco stabilisce una relazione tra la tecnica e la fabbricazione di cadaveri nei campi di sterminio:

Muoiono? Decedono. Vengono eliminati. Muoiono? Diventano pezzi del magazzino della fabbricazione di cadaveri. Muoiono? Vengono liquidati impercettibilmente nei campi di sterminio…. Ma morire (sterben) significa: sopportare la morte nel proprio essere. Poter morire significa: potere questa decisa sopportazione. E noi lo possiamo solo se il nostro essere può l’essere della morte… Dappertutto l’immensa miseria d’innumerevoli, atroci morte non morte (ungestorberner Tode), e, tuttavia, l’essenza della morte è sbarrata all’uomo.

Già in Essere e Tempo, Heidegger a proposito della morte, aveva detto che questa é la “fine” dell’essere-nel-mondo:

Nell’Esserci, finché c’è, manca sempre ancora qualcosa che esso può essere e sarà. Ma di questo qualcosa che manca fa parte la stessa «fine». La «fine» dell’essere-nel-mondo è la morte [sottolineatura mia]. Questa fine, rientrando nel poter-essere, cioè nell’esistenza, delimita e determina la sempre possibile totalità dell’Esserci.

Ma, in quale senso la morte deve essere intesa come la fine dell’esserci?

Finire significa prima di tutto cessare, ma in un senso che comporta particolari distinzioni ontologiche. La pioggia cessa. Non è più presente. La via cessa. Questo cessare non fa scomparire la via, ma la determina nella sua consistenza di semplice presenza. Finire in quanto cessare può quindi significare: dissolversi nella non presenza o raggiungere la totale presenza solo con la fine. Finire nel secondo senso, può di nuovo o significare l’esser presente come non ultimato (una strada che si interrompe perché incompiuta) oppure costituire proprio l’«essere ultimato di una cosa presente come tale».

Ma, ciò che pretende di essere compiuto, deve essere ultimato:

Per contro ciò che pretende essere compiuto deve essere ultimato [sottolineatura mia]. Il compimento è un modo che si fonda nell’«essere ultimato». Ma questo da parte sua, è possibile solo come determinazione di una semplice presenza o di un utilizzabile. […] Nella morte l’Esserci non è né compiuto né semplicemente dissolto né, tanto meno, ultimato e di-sponibile. L’Esserci, allo stesso modo che, finché è, è già costantemente il suo “non-ancora”. È anche già sempre la sua morte. Il finire proprio della morte non significa affatto un essere alla fine dell’Esserci, ma un essere-per-la-fine da parte di questo ente. La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. «L’uomo appena nato, è già abbastanza vecchio per morire».

Ma la morte è un fenomeno della vita. Infatti:

Nel senso più largo la morte è un fenomeno della vita [sottolineatura mia]. Il vivere deve essere inteso come un modo di essere cui appartiene l’essere-nel-mondo. […] La fine del semplice vivente è stata definita come cessare di vivere. Poiché anche l’Esserci «ha» la sua morte fisiologica quale essere vivente […], anch’esso può cessare, senza tuttavia che ciò significhi la morte in senso autentico. D’altra parte, poiché dell’Esserci, come tale, non si può dire che cessi semplicemente di vivere, indicheremo questo fenomeno intermedio col termine decesso. Morire varrà invece come termine per indicare il modo di essere in cui l’Esserci è per-la-sua-morte.

A questo punto possiamo tentare di concludere che la morte prodotta indu-strialmente è una “morte non morte” (ungestorberner Tode) e che, quindi, il Muselmann non muore, ma decede. Non solo, ma il Muselmann non è nemmemo un “mortale”. E infatti:

[mortali sono chiamati così] perché possono morire, [dove morire significa] essere capace di conoscere [vermögen] la morte come morte.

Secondo Ugazio, per Heidegger, “proprio nella morte, l’esser-nel-mondo trova un limite, raggiunge una sorta di totalità, oltra la quale, per così dire, non può andare.” Ma “la morte di cui parla non è evidentemente il giungere alla fine di un ente semplicemente presente, ossia non è il decesso fisico” .
La morte è un “non-ancora”, ma, spiega Ugazio, riprendendo due esempi dello stesso Heidegger, questo “non-ancora” non ha lo stesso senso del “non-ancora” del quarto di luna rispetto alla luna piena, o del frutto immaturo rispetto al frutto maturo. Non esprime una “mancanza”, ma “un’imminenza che sovrasta” (Bevorstand): questo nel senso che fin dall’inizio la morte è già sempre presso l’Esserci, appartiene alla sua struttura ontologico-esistenziale”, ne è ”l’estrema possibilità” .
Insomma la morte viene chiamata in causa non come l’accadere di qualcosa puntuale, di qualche cosa come la fine di un ente, ma come un costante essere per essa .
Quando Heidegger dice che “l’uomo è abbastanza vecchio per morire” , vuol dire che la morte fa parte costitutivamente del suo essere. L’esserci in quanto essere-per-la-morte è già sempre morente e non muore con il decesso fisico.
Agamben, fa notare che in Essere e Tempo, ”l’essere per la morte” è il luogo di un’esperienza decisiva che “esprime forse l’intenzione ultima dell’etica di Heidegger” . Per Heidegger, alla luce della conferenza di Brema, Auschwitz è il luogo in cui è “impossibile fare esperienza della morte” .
Qui Agamben scorge una possibile contraddizione in Heidegger, sulla base del principio hölderliniano, che Heidegger stesso ripete più volte: «dove c’è il pericolo, là cresce ciò che salva». Ma se così fosse, proprio nella situazione estrema del campo, si dovrebbe trovare “la possibilità di riscatto”. Allora, secondo Agamben, “la ragione per cui Auschwitz è escluso dall’esperienza della morte deve essere un’altra”, tale da mettere in crisi “la base stessa dell’etica heideggeriana”. Il Lager è proprio il luogo in cui non è possibile la distinzione fra proprio e improprio. L’improprio si è fatto integralmente carico del proprio e gli uomini “vivono in ogni istante fattiziamente per la loro morte” .
Pertanto ad Auschwitz non è possibile distinguere tra morte e decesso.
Il Muselmann, quello che Levi aveva chiamato il nerbo del campo e che Sofsky considera l’espressione più rappresentativa dello sterminio di massa, è colui per il quale la vita, senza la parola e senza l’azione, non è vita, la morte non è morte ma è decesso, o meglio fabbricazione di cadaveri.
Con la sua figura, il Muselmann revoca e mette in “questione la stessa umanità dell’uomo ”.

Epilogo
Che cosa resta, allora, dell’uomo e della sua morte oltraggiata, reificata, cancellata?
Che cosa resta della lingua e, in particolare, della lingua materna offesa, violata, annientata?
Rispondere a queste due domande, intrecciate tra di loro, così come lo sono linguaggio e morte, non è possibile.
Ma dobbiamo rispondere.
Come è stato detto, non possiamo, ma dobbiamo .
Forse, è proprio in questo iato tra non potere e dovere, in questo salto nel vuoto, in questo abisso, in questo silenzio, che si costituisce la responsabilità dell’uomo e si misura la speranza di riguadagnare, insieme al linguaggio e alla morte, i tratti originari dell’umanità perduta, revocata, messa in questione.
Gunther Anders scrive di una «vergogna prometeica» a proposito del nostro senso di impotenza per trovare una spiegazione. Primo Levi, fa riferimento a una «vergogna del mondo» ontologica cioè quasi a un peccato originale, ma di natura laica che nasce dalla coscienza del carattere umano dell’offesa. Hannah Arendt, parla in un primo tempo di male radicale . Poi di banalità del male e spiega in una lettera a Scholem perché ha cambiato idea: “il male – scrive – non è mai radicale, ma soltanto estremo. […] Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. […] Solo il bene è profondo e può essere radicale” . In un’intervista televisiva degli anni ’60 confessa tutto il proprio orrore: “non sarebbe mai dovuto succedere. […] Ad Auschwitz è successo qualcosa che noi tutti non siamo preparati a comprendere” . Interrogata su che cosa fosse rimasto dopo la catastrofe risponde, senza esitare: “Che cosa è rimasto? La lingua. […] Non è la lingua tedesca ad essere impazzita” .
Trenta anni dopo Derrida polemizza con Arendt e ne “decostruisce” l’intervista. Per lui, al contrario, è stata proprio la lingua tedesca, che per Hannah Arendt è la lingua madre, a impazzire. Come una madre che impazzisce in casa, si è resa, quindi, responsabile e colpevole del disastro, non vittima .
Ma ben presto, contraddicendosi, ammetterà che “l’esperienza del nazismo è un crimine contro la lingua tedesca” .
E, con riferimento a Celan, considerato il più grande poeta di lingua tedesca del Novecento, aggiungerà che “in ogni istante ha dovuto vivere la morte della lingua” ma che “l’atto poetico costituisce una sorta di resurrezione” .
Sul rapporto tra la morte e la lingua tedesca, la sua lingua materna, si era così pronunciato lo stesso Celan: “solo nella lingua materna si può esprimere la propria verità. Nella lingua straniera il poeta mente” . Ma “la lingua – aggiungeva – dovette passare attraverso un ammutolire orrendo, passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte. Essa passò […] Passò e le fu dato di riuscire alla luce, «arricchita» da tutto questo” .
Per spiegare questo passaggio e l’arricchimento che, grazie al lavoro poetico di Celan, ne è derivato, Jean Bollack parla di tecnica della ri-formazione (Um-formung) in grado di di rifare la lingua partendo dal suo interno (“von innen her”) .
Dal canto suo Adorno, nell’immediato dopoguerra, suscita scandalo dichiarando, a caldo, che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie” . Ma in seguito chiarisce meglio la sua espressione travisata da una lettura superficiale e letterale: non pochi critici l’avevano considerata quasi una prescrizione formale indirizzata, prima di tutto, a Paul Celan.
Lo fa indicando come esempio di poesia possibile dopo Auschwitz, proprio quella di Celan, tra tutti i poeti del dopoguerra, come fa notare Peter Szondi , quello che Adorno predilige. La sua poesia è “compenetrata dalla vergogna dell’arte al cospetto del dolore che si sottrae, sia all’esperienza, sia alla sublimazione. Le poesie di Celan vogliono dire col silenzio l’estremo orrore. […] Esse imitano una lingua al di sotto di quella impotente degli uomini, anzi di ogni lingua organica, imitano la morta lingua della pietra e della stella” .
Infine, negli ultimi mesi di vita, lo stesso Adorno, precisa che su Auschwitz dobbiamo non solo parlare, ma anche insegnare. Lo fa in un saggio significativamente intitolato L’educazione dopo Auschwitz mostrando, come, per rispondere all’imperativo “mai più Auschwitz” sia necessario, prima di tutto, una pedagogia che operi nel senso di organizzare l’agire e il pensare in modo che la catastrofe non si ripeta. Non una pedagogia qualsiasi, ma una pedagogia riflessiva in grado di mettere a fuoco il ruolo del soggetto dell’insegnamento, cioè l’insegnante che deve rivolgere su se stesso l’azione pedagogica costringendosi, da docente, a ridiventare a discente.

La costellazione di domande e risposte, così diverse fra loro, spesso, anche, in una stessa persona, appare paradossale e può provocare un senso di smarrimento e di impotenza.
Ma còlte tutte insieme, queste domande e queste risposte, nella loro molteplice contraddittorietà, costituiscono già la promessa di una memoria inestinguibile e, insieme, la speranza della rinascita per la nostra umanità così offesa.
Ci ammoniscono che non è possibile, nemmeno a distanza di tempo, comprendere Auschwitz, storicizzarlo, farsene una ragione.
Infatti, “non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare” .
Tutte queste domande e queste risposte ci dicono che, in fondo, non ci sono regole né schemi, non c’è un fine o una fine, non c’è una strada certa e sicura.
Ma dobbiamo, lo stesso, coltivando la memoria, camminare e andare avanti.
Ci dicono, insomma, che non possiamo, ma dobbiamo.

Tre questioni a partire da "Rahel Varnhagen. Storia di un'ebrea" di Hannah Arendt

(Rahel Varnhagen)

Tre questioni a partire da
"Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea"
di Hannah Arendt
a) il tema della verità
b) Rahel e le sue amiche
c) la questione ebraica tra il 700 e l’800.


I tre temi posti in questione sono strettamente intrecciati fra loro.
Non è facile, a proposito di Rahel Varnhagen e di Hannah Arendt, trattare separatamente la questione ebraica dalla questione femminile, e entrambe queste questioni, da quella, più strettamente filosofica, della verità.
Forse non è nemmeno possibile farlo.
Infatti, i temi messi in discussione, sono sì distinti tra loro, ma appaiono inseparabile come lo sono due facce di uno stesso foglio di carta.
A complicare la faccenda contribuisce, poi, la natura incerta del reperto in questione. E’ un libro, quello su Rahel, che si sottrae a ogni classificazione: libro di storia? di filosofia? biografia?
Ma incominciamo, per punti, a parlare della Verità.

Il tema della verità
• Non c’è dubbio che, negli anni di Marburgo, Hannah Arendt, allieva di Heidegger, abbia studiato e messo a tema la verità come non nascondimento, disvelamento, come aletheia.
La verità, secondo Heidegger: come una sorta di autorivelazione dell’Essere.
E non c’è dubbio, nemmeno, che abbia approfondito la verità dell’altro suo maestro, Jaspers, come autorivelazione dell’esistenza singola: ogni esistenza è a se stessa la sua propria verità.
Così come doveva aver presente la verità come corrispondenza, quale, da Aristotele in poi, era stata teorizzata nella tradizione filosofica.
Né doveva essere all’oscuro della verità come l’opposto della falsità, secondo quello che una corrente di pensiero, che più tardi sarebbe stata definita analitica, andava teorizzando.
In Arendt che pure, risente della lezione dei pensatori che l’hanno preceduta, la verità è qualche cosa di diverso, che ha a che fare sì con l’esistenza, ma anche con la natura e con la storia. E non prescinde dalla ragione. Si intreccia con il destino e con la realtà. Soprattutto ha un carattere plurale.
In una lettera di Rahel a Veit, citata da Arendt, la verità appare già come un’apertura totale, una mancanza di indiscrezione e, forse, di pudore: “Perché non vuole mostrare a nessuno la mia lettera? … Se solo potessi aprirmi agli uomini come si apre un armadio… ”.
In altri casi la verità sembra sia qualche cosa che appare soprattutto in certi luoghi, deputati, come i salotti ebrei (almeno durante quella stagione effimera che si conclude con il 1806 con caduta del Sacro Romano Impero).
Per circa un trentennio, infatti, il salotto ebreo di Berlino ero lo “spazio sociale fuori dalla società” dove si poteva “ figurare quel che si è e non mostrare quello che si ha” .
Sono le “verità di mansarda” che si potevano dire, in quell’epoca, solo in alcune zone franche, nei luoghi sottratti alle regole del tempo.
Da cui, intanto, si deduce che le regole del tempo erano in contrasto con la verità.
Che il mondo, al di fuori della mansarda, fosse falso.
La verità appare intrecciata alla natura e alla storia.
Infatti, se si ignora la propria storia, questa “si vendica e diventa … destino personale” .
Ma la verità, e questo è un tratto originale di Hannah Arendt, ha un carattere plurale. Non ha nulla a che fare con la riflessione solitaria di platonica memoria. Ogni fatto “si può rendere non accaduto con la menzogna…. La menzogna è l’erede della riflessione ”. Infatti, se il pensiero diventa riflessione, conquista un’apparenza di potere illimitato perché si isola dal mondo, si fa illimitato nell’isolamento. Il campione della mania della riflessione è, secondo Arendt, Rousseau. Rousseau non racconta le storie della sua vita, non dice le sue esperienze, ma solo quello che ha provato, ha bramato, desiderato ecc. La vita diventa per lui realtà soltanto nella confessione. “Povera realtà che dipende dagli uomini che credono in essa e la testimoniano ”. E quando Rahel scrive “i fatti reali non mi tangono proprio”, si accorge dello sproposito e lo fa firmandosi, alla maniera di Rousseau: J. J. Rahel .
Spiega Hannah Arendt: nessun essere umano si può isolare a tal punto da non essere sempre rinviato al mondo, se vuole sperare in ciò che solo il mondo può dare: «cose comuni. Che però si devono avere» ”. E aggiunge “la ragione… nell’astrazione distoglie, dall’elemento singolo, trasforma il desiderio di diventare felici in «passione di verità» ”.
Ma Rahel non si sa staccare dalla verità.
A conclusione della sua storia con il conte von Finckenstein, resta passiva: lascia che accada quello che sta per accadere: “non far più nulla, dire soltanto la verità, testimoniare la verità” ”.
Ma questa verità ha un prezzo. Nessuno accetta la verità che Rahel era disposta a gridare. “Ha voluto lottare per dire la verità…. Nel mondo delle opinioni la verità stessa è un’opinione. E’ insignificante.… Per questo il mondo l’ha maltrattata. Hanno respinto chi era stato respinto dal destino, lei e la sua verità» ”.
Certo, a volte cede nell’amore e preferisce essere ingannata.
“Trompes-moi un peu!” Non vuole più la verità … preferisce … la menzogna piuttosto che ritornare a essere sola disincantata e respinta ”.
Ma lo fa solo per prolungarsi la vita: “Mentivo… Perché non dovrebbe essere permessa una menzogna… se riguarda l’amare? …. Mentivo per prolungarmi la vita ”.
Sarà per lei una dura lezione. Imparerà che il destino, non si compie soltanto, ma che vi si collabora .
Più che la riflessione, è l’arte, la poesia, in particolare, che gioca un ruolo nella verità. “La creazione poetica trasforma il fenomeno particolare … in verità generale, … non usa la lingua come mezzo di comunicazione, … ma la trasforma nella sua patria. La lingua deve conservare: … più a lungo che non possa far l’uomo, essere effimero. L’oggetto della rappresentazione …è strappato alla sua particolarità, diventa idea, essenza ”.
Ma il mondo con le sue trame è intriso di menzogna. Allora, per tentare di restare fedele a se stessa e alla verità, Rahel si rifugia in una verità onirica; “L’infelicità cacciata dal giorno si rifugia nella notte ”.
Ma non per questo, Rahel rinuncia alla verità. La sua non è una fuga.
Infatti, non diventerà mai una parvenu che inganna se stessa: “Per diventare un parvenu bisogna pagare con la verità e Rahel non vuole .”
Nonostante i cambi di nome, il battesimo, tutti gli atti di sottomissione e conformismo ai dettami dell’assimilazione, alla fine dei suoi giorni potrà dire, con fierezza: “ tutta la vita mi sono considerata Rahel e nient’altro ”.
E quasi un testamento morale. Arendt ci ricorda le parole di Rahel morente, con riferimento alla sua ebraicità: ”quello che per tanto tempo della mia vita è stata l’onta più grande,…, essere nata ebrea, non vorrei che mi mancasse a nessun costo ”.
Rahel per amore della verità, si salva dal divenire parvenu, e resta paria.

Il tema della verità, dalle evidenti implicazioni filosofiche, verrà messo a fuoco, nella riflessione di Arendt, soprattutto negli anni ’70. Riflessione incompiuta e purtroppo interrotta dalla morte improvvisa, che le ha impedito di concludere quella che sarebbe stata la sua opera filosofica più complessa e significativa: La vita della mente.
Ma già a partire dal libro su Rahel, scrittonegli anni ’30, si possono trovare, sia pure in nuce, interessanti spunti, che saranno confermati dalla riflessioni successive. Il tema della verità, è il punto da cui parte Arendt per imbastire un discorso filosofico. Nella sua biografia su Rahel, Arendt parte da una storia, da un rapporto non trasparente che Rahel ha con la realtà stessa. Un rapporto trasparente con la realtà si lega alla relazione tra storia individuale e storia generale, tra soggettività e universalità. Tra privato e pubblico. Secondo un’interpretazione possibile, per Kant, l’uso della ragione è un dovere della persona solo nella sfera privata. Invece nella società, dove, svolge un compito pubblico, l’individuo, sia esso ufficiale, prete, funzionario statale, deve obbedire senza ragionare. Sara questa la lettura di Kant invocata da Eichmann al suo processo, e da cui Arendt prende le distanze . E’ certo che, al di là dell’uso strumentalmente difensivo e distorto dettato dalle circostanze processuali, questa interpretazione di Kant resta inquietante.
Molte argomentazioni polemiche con Kant, che affiorano già in questo scritto degli anni 30, anticipano quelle poi maturate molto più tardi, negli anni 70, nel corso dei seminari su Kant. Sopratutto Arendt, pur prendendo le distanze da Kant, per la sua filosofia della storia e per la concezione normativa che ne discende, e che mette in questione la stessa libertà umana, si interessa, alla teoria estetica di Kant. In particolare, al giudizio riflettente. Il giudizio riflettente è un giudizio soggettivo, che dipende dai sensi. Non si basa su esperienze razionali e ripetibili.
E’ una modalità di giudizio diverso dal giudizio determinante, che, nella prima Critica, sta alla base della conoscenza.
Arendt scorge nel giudizio riflettente la possibilità di acquisire una prospettiva universale, ma che, nello stesso tempo, non sia oggettiva. Mostra in tal modo, la possibilità di un giudizio che sia, insieme, soggettivo e, in quanto condiviso universalmente, universale. E’ un’universalità soggettiva che, pertanto, non annulla il particolare. E’ un particolare che si deve misurare con altri particolari, secondo un punto di vista allargato. Si parte da una singolarità assoluta, in grado di esprimere un giudizio riflettente. Questa rivalutazione del valore soggettivo del giudizio ha per Arendt una funzione politica, e porta ad una prospettiva particolare nel discorso filosofico.
Questa universalità soggettiva si innesta nella vita di Rahel.
Il pluralismo passa, a partire dalla vita di Rahel, come esperienza.
A questo punto è possibiile leggere la dicotomnia paria-parvenu, già messa in luce da Arendt soprattutto negli ultimi capitoli, scritti in Francia sotto l’influenza della lettura di Bernard Lazare .
Il parvenu è quello che nasconde le proprie differenze, si mimetizza, si mette al centro. Rinuncia alla propria singolarità, rinuncia a essere qualcosa di assolutamnete nuovo e irripetibile, venuto al mondo con la nascita.
Si pone al centro. Ma stando al centro gli manca la giusta prospettiva per guardare tutto quello che gli sta intorno, o, magari, alle spalle. Così il parvenu rinuncia a se stesso e alla propria natura. Invece il paria, si pone ai margini. Riconosce la propria differenza e, di conseguenza, quella degli altri. Stando in periferia, ai margini, ha uno sguardo panoramico e può cogliere meglio le differenze
Su questa idea di oggettività si innesta una discussione epistolare con Jaspers, che pure nel rispetto del rapporto, tra allieva e maestro, assume caratteri forti e appassionati.
Commentando quanto Arendt aveva detto in una conferenza su Rahel del 1930 , Jaspers aveva concluso che Arendt, avesse oggettivato la storia di Rahel, che invece è solo una storia singolare: “L’esistenza ebraica viene da Lei oggettivata nel quadro di una filosofia dell’esistenza… La contraddizione tra libertà assoluta e radicamento ha per me, in senso filosfico, un carattere inqietante ”.
Arendt risponde, anticipando le conclusioni che avrebbe megli esplicitato 40 anni dopo: “In verità esiste in un certo senso un’obbiettivazione: ma non già dell’esistenza ebraica, bensì quella di uno storico contesto del vivere, del quale io credo si possa avere un’opinone, ma non un’idea oggettiva ”
Le considerazioni espresse 40 anni dopo da Arendt sul giudizio riflettente di Kant, il fatto che nella universalità di questo giudizio, la particolarità non scompaia, ma si mantenga un’universalità soggettiva, la possiamo considerare una ben argomentata risposta, a distanza di tempo, alle obbiezioni delmaestro.

Rahel e le sue amiche
• Non c’è dubbio che Rahel vivesse una doppia discriminazione, non solo quella di essere ebrea, ma anche quella di essere donna.
I rapporti con le sue amiche di salotto e di vita, Rebecca e Pauline offrono lo spunto per tentare una lettura di Arendt al femminile, al fine di coglierne il senso.
La questione non è di facile soluzione. Così come è intrigante la questione se la nozione arendtiana di paria sia applicabile anche al genere femminile in quanto tale.
Ma questo punto di vista non può essere trascurato. Questo tema è stato messo a fuoco, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando è diventato di grande attualità.
A prima vista, Arendt non si presterebbe a una lettura al femminile. Come è stato osservato “Arendt non si interessa particolarmente alla problematica della condizione della donna”. Tuttavia viene aggiunto, subito dopo, “la sua opera contiene sufficienti idee di liberazione che meritano di essere considerate ”.
Di sicuro, non sono molte le opere in cui Arendt parla della problematica di genere.
Lo fa, per la prima volta, nel 1933, in una recensione di un libro sulla questione femminile . Ma a dire il vero, in questa occasione, a mio avviso, non va oltre considerazioni abbastanza ovvie, quali “sebbene ai nostri giorni quasi tutte le professioni sono accessibili alle donne”, tuttavia “l’emancipazione delle donne garantita in astratto si rivela come qualcosa di formale che non impedisce la schiavitù nella propria casa ”.
A spiegare la posizione di Arendt rispetto alla problematica di genere, ci vengono però, in soccorso, importanti spunti autobiografici forniti da lei stessa, soprattutto, nel corso di una celebre intervista televisiva del 1964 o raccontini biografici, raccolti in gran parte nella fondamentale monografia di Young-Bruehl .
Ma la fonte principale, in fondo, è costituita proprio dal suo libro su Rahel.
Certo, se si può parlare di femminismo ante litteram, si tratta di un femminismo tutto affatto particolare, anomalo, e forse incomprensibile, per i suoi tempi. Forse perché troppo in anticipo sui tempi stessi e in controtendenza con le più diffuse concezioni dell’emancipazione delle donne della prima metà del Novecento.
Nella intervista del 1964 Arendt, suscitando meraviglia, dichiara di essere all’antica e di aver sempre pensato che ci siano “delle professioni che non si addicono alle donne ”. Non le pare bello – aggiunge - quando una donna si mette a dare ordini. Ma per lei - conclude significativamente - questo problema non ha pesato molto, perché ha fatto sempre quello che le “andava di fare ”.
Nel seguito dell’intervista Arendt ci fa sapere di essere rimasta orfana molto giovane e di essere cresciuta senza un padre. Ma con una madre che svolgeva, in famiglia e fuori, anche un ruolo maschile. La madre stessa le aveva insegnato delle regole che garantivano la sua dignità e le consentivano di difendersi da sola. Possiamo dire, quindi, che Arendt è cresciuta in una indistinzione o confusione di ruoli, senza sentire la mancanza di un padre forte e protettivo, e senza essere, lei stessa, relegata ai ruoli tipici delle adolescenti del suo tempo.
Sulla base di tali princìpi, come fa notare Young-Bruhel, da adulta reagiva polemicamente quando in occasione di inviti o di riconoscimenti veniva enfatizzato la sua appartenenza al genere femminile o veniva qualificata come la prima donna a ottenere un certo risutalto quale, per esempio, essere, lei, una donna!, a capo di un certo seminario .
Non sopportava di apparire una donna simbolo, di quelle che vengono messe in vetrina.
Quando nel 1959 venne nominata professore ordinario a Princeton minacciò addirittura di rfiutare la nomina perché “nel dare la notizia al “New York Times”, l’Università aveva messo in rilievo il fatto che si trattava della prima donna che l’avesse mai ricevuta ”.
In altre parole oggi Hannah Arendt sarebbe contraria, se così possiamo dire, a provvedimenti, ancora oggi talora rivendicati, quali le quote garantite in questa o quella istituzione, per le donne, come misura per l’emancipazione ma che in realtà ne sanciscono la situazione di subordinazione di genere. Non voleva essere considerata una «donna d’eccezione».
Affiora già qui una prima analogia che lega la condizione di ebreo a quella di donna. Infatti nell’espressione ”donna d’eccezione” risuonava quella analoga e simmetrica di “ebreo d’eccezione” quale era stata considerata, in fondo, Rahel Varnhagen. Figura, quello di “ebreo d’eccezione” che la stessa Arendt avrebbe messo in questione in L’Origine del totalitarismo :
Nel caso degli ebrei d’eccezione, aveva spiegato Arendt, questa condizione aveva finito col diventare una questione puramente personale e psicologica, aliena da ogni implicazione che riguardi le discriminazioni politiche o giuridiche. Arendt s’irritava quando sul problema femminile “si voleva creare un movimento politico separato dagli altri, o si formava un interesse di natura psicologica” .

Hannah Arendt non ci teneva, insomma, a presentarsi come una donna (o un’ebrea) d’eccezione. Quello che voleva per le donne, era soprattutto un impegno contro le discriminazioni politiche e giuridiche.
Questo è un tratto di sim-patia tra Hannah Arendt e Rahel.
Un altro tratto è costituito da quel rifiuto della distinzione di ruoli di genere cui Hannah, come abbiamo ricordato, era stata abituata fin da bambina, e di cui c’è una significativa descrizione a proposito di uno scambio di lettere tra Rahel e August Varnhagen, firmate con le sole iniziali. Una lettura in cui, sulla base delle sole iniziali, i ruoli vengono facilmente, non solo confusi, ma addirittura rovesciati. Al punto da sviare uno spirito sicuramente avvertito come Goethe, che finisce per scambiare Rahel per l’uomo e August Varnhagen per una donna !
Un altro caso di scambio di ruoli, viene ammesso da uno dei più importanti interlocutori di Rahel, Gemtz, il quale riconosce che "la nostra relazione è così perfetta perché io sono ricettivo e lei è produttiva, lei è un grand’uomo “ .

Ma tutto questo non deve far pensare a un annullamento delle differenze di genere.
Arendt riconosceva l’esistenza di tratti caratteristici femminili cui non voleva rinunciare. Come abbiamo ricordato poco fa, riteneva che alcuni mestieri non fossero adatti alle donne così come diffidava di tutte le donne che “danno ordini” o che diventano capi politici .
La sua massima, declinata in francese, era “Viva la petite différence!” .
Del resto, come sosteneva il suo amico Hans Jonas, Arendt desiderava conservare alcuni privilegi tipici delle donne: “ricevere fiori, essere accompagnata, sfruttare le attenzioni degli uomini “ . In questo senso possiamo dire che, se, come è indubitabile, non partecipò direttamente alla lotta di emancipazione delle donne nel suo tempo, ciò era dovuto al fatto che stava troppo in anticipo con i tempi. Non si poteva sospettare quaranta o cinquanta annni fa delle prospettive che sarebbero state aperte dalla riflessione delle donne e che nel “femminismo attuale, l’uguaglianza reclamata non implica la negazione delle differenze, ma, piuttosto l’assunzione di queste in funzione di un’autentica uguaglianza” .
Del resto Arendt stessa riconosce che il problema femminile definito come “il divario fra quanto gli uomini «in genere» si aspettano dalle donne e quanto esse possono dare e a loro volta attendano ”è storicamente determinato. Infatti è “prefigurato nelle condizioni dell’epoca” .
Arendt sa riconoscere i tratti femminil
La forma stessa in cui Rahel, si esprime, e che così tanto Hanna Arendt valorizza, con una moltitudine di citazioni, è quella, tipicamente femminile, della lettera e del diario. Sono, infatti, generi “non letterari, semplici, quotidiani, accessibili alle donne ”.
E’ stato osservato un uso caratteristico che di questi generi fa Rahel. Lettere e diario, sembrano scambiarsi le rispettive funzioni.
“Quello che ci aspettiamo di trovare nell’intimità del diario… lo troviamo quasi esclusivamente nelle lettere. I diari, invece… non hanno nulla di intimo e … si adatterrebbero meglio ad una forma più aperta al mondo, come la lettera ”. “Solo comunicando con gli altri, ci si manifesta veramente, la socialità assurge per lei a forma di vita” .
E la lettera sarà sempre considerata da Rahel il mezzo privilegiato per comunicarsi al mondo: “tutto di me, su di me è da ricercare nelle lettere” .
Del resto a proposito di scrittura e verità, la stessa Rahel era consapevole che la lingua era la vita stessa, e che per dire la verità doveva inventarsi una lingua idonea, quella appunto delle lettere: “La nostra lingua è la nostra vita vissuta: io me ne sono inventata una. Per questo [le mie frasi] son diseguali e per molti versi carenti. Ma sono sembre vere”.
Proprio grazie alle lettere, grazie alla vita vera e vissuta trasmessa dalle lettere, nonostante la censura imposte da August Varnhagen, recriminata come tale e contestata, dalla stessa Pauline Wiesel che ne fu forse la principale vittima , e lamentata, poi, da Hannah Arendt nella sua prefazione , è possibile ricostruire il rapporto di Rahel con le sue amiche del salotto ebreo.
Il ruolo delle donne ebree nel salotto di Rahel è stato riconosciuto di primaria importanza.
Sono state proprio le donne, in quel tempo, in prima fila nell’assimilazione. Questo perché “le donne hanno tempo”, mentre “gli uomini sono troppo occupati con gli affari economici" . Del resto, spiega Gentz “le donne sono fra gli ebrei, al cento per cento migliori degli uomini ”.
Tra le numerose amiche di Rahel che animavano i salotti ebraici del tempo, due sono forse quelle che più di altre hanno lasciato il segno.
La prima, Rebecca Friedländer, all’apparenza così uguale a Rahel, con la quale, a un certo punto, Rahel quasi finisce con l’identificarsi, ma rispetto alla quale proverà, in un secondo tempo, un’amara delusione, e l’altra, Pauline Wiesel, all’apparenza così diversa, che sarà l’amica della vita.
A Rebecca, ritenuta insopportabile da Hannah Arendt , Rahel racconta, in grande intimità, tutta la sua vita.
In cinque anni le invia 158 lettere.
Rebecca figlia di ebrei, come Rahel, in seguito battezzata, come Rahel, ha una storia d’amore simile a quella che aveva avuto Rahel con Finckenstein. Anche lei ama un conte, che però non ha nessuna intenzione di sposarla.
Per questo motivo Rahel, sente il dovere di dirle tutto di se stessa, di darle tutta se stessa. Pensa infatti che la sua sofferenza sarebbe stata inutile se non ne avesse reso testimonianza. Emerge, con tutta evidenza, la dimensione plurale della testimonianza. Si testimonia perché un altro faccia tesoro del dolore che è già stato patito, e che, forse, solo in tal caso non sarebbe un dolore inutile. Insegna all’amica, più giovane, che la vita continua, che “vivere dolorosamente significa vivere ”. Vuole soffrire per lei e con lei. La consola e cerca di suscitare in lei sentimenti di solidarietà per il comune destino, di donne deluse da una storia d’amore e di ebraismo: “puo salvare soltanto la solidarietà di persone che, per precisi motivi conoscono la banalità dato che la loro «nascita infame» li ha segnati” .
Le sembra insensato che “quello che ha assaporato fino alla feccia” possa ripetersi. Per questo vuole proteggere l’amica. Per questo è costretta a ripetere e rivivere la sua esperienza.
Ma Rahel rimarra profondamente delusa da Rebecca.
Quest’ultima, anticipando una pessima abitudine dei nostri giorni, scrive, basandosi sulla propria storia d’amore, un brutto romanzo, in cui i principali personaggi sono riconoscibili e derisibili.
Per questo motivo Rahel “la giudica folle e si separa da lei” .

Ben diversa la sua relazione con Pauline Wiesel, bellissima, disinibita, amante del principe Luis Ferdinand, prima che questi morisse in battaglia.
Amica fin dall’infanzia, la ritrova a Parigi.
A Parigi sono entrambe straniere. Per questo, quasi non vengono considerate ebree, in quanto straniere tra stranieri. Infatti: “per diventare berlinese fu necessario allontanarsi da Berlino … l’essere unano non è se stesso se non in luoghi stranieri ”.

Secondo Hannah Arendt, Pauline era l’unica donna che Rahel considerava sua pari .
Con Pauline, Rahel si sente uguale, eppure diversa: “esiste solo una differenza tra noi due: lei vive tutto, perché ha avuto coraggio e fortuna, io le maggior parte delle cose le penso [e non le faccio] perché non ho avuto fortuna e mi è mancato il coraggio ”. Pauline, a differenza di Rahel, è bellissima. Per questo si può permettere il coraggio sociale. Volta le spalle alla società borghese e non si piega a “nessuna convinzione”. Nonostante il suo coraggio o, forse, proprio in virtu di questo, giunge alla propria bancarotta personale. Rahel capisce, allora, che si entra in società solo a prezzo della menzogna. Scopre così che il parvenu è costretto a sacrificare “tutto quanto è naturale, a dissimulare ogni verità, approfittare di ogni amore per la propria ascesa sociale. Se Rahel permette a August Varnhagen di fare di lei la contessa von Ense, di cancellare la sua esistenza e perfino il suo nome, tuttavia resuscita segretamente contro di lui “i brandelli della sua antica esistenza e vive «solo interiormente » la propria vita.
Varnhagen si vendicherà con la censura e con il disprezzo contro Pauline, colpevole di averle distolto Rahel e di averla resa fredda, di “aver seminato zizzania ”.
Ma Rahel non tradirà mai l’amica. Nell’ultima lettera, prima di morire, le confiderà di essere la “prima e l’unica persona ” cui scrive. Con lei ha in comune “l’amore profondamente umano di chi è stato sescluso dalla società per le «realtà vere» - «un ponte, un albero, un viaggio, un odore, un sorriso» .

La questione ebraica tra il 700 e l’800.
• nella prefazione al suo libro su Rahel, Arendt chiarisce, fin dall’inizio che “questa biografia è stata scritta con la coscienza della fine dell’ebraismo tedesco “
Infatti, solo dopo che un fenomeno è giunto alla fine se ne può scrivere la storia. E’ questo in fondo un anticipazione di quanto verrà meglio argomentato in Vita Activa: che il significato di ciò che accade si rivela solo dopo che è scomparso. Un qualsiasi accadimento, finché lo viviamo, non possiamo dire che cosa sia e quale sia il suo significato. Di qui, da parte di Arendt, la fondazione di una vera e propria teoria del racconto e della testimoniana come racconto.
Rahel, con la sua vita, testimonia la storia dell’assimilazione come destino personale.
Ed è solo sul letto di morte, quando si anticipa la propria morte e quando la propria vita è giunta alla fine, che Rahel potrà veramente fare il racconto della sua esistenza, potrà sapere che cosa la sua vita sia veramente stata. Osserva Arendt: “La vita è in realtà finita, non ha più nulla da dire. Di fronte a lei si apre il corso di tutta la vita; parla come sul letto di morte dice cioè la verità ”.
Ed è’, allora, finalmente, comprende che l’essere ebrea, “quello che è stata l’onta più grande ”, non vorrebbe che le mancasse a nessun costo.
Alla fine la vita di Rahel diventa “un frammento di storia ebraica ”.

Sull’assimilazione Arendt è categorica. Con l’assimilazione degli ebrei, “gli ebrei non voglion emanciparsi come totalità, vogliono solo uscire dal loro ebraismo ”.
All’assimilazione gli Ebrei furono attirati con l’inganno. Furono così derubati del puro esistere, delle cose più semplici e importanti, “quelle che hanno le contadine e le mendicanti ”. Più l’ebreo si rifiuta di condividere “il destino comune agli ebrei più il suo destino diventa tipicamente ebreo ”.

Se ci si vuole assimilare non si può evitare di assimilarsi anche all’antisemitsmo e alla vergogna di se stessi.
Rahel aveva fin da bambina provato la vergogna per i suoi parenti ebrei di provincia .
Ma con la vergogna, osserva Arendt, si finisce col cedere molto: “non solo l’appartenenza al popolo ebraico, ma anche la solidarietà con il gruppo degli ebrei d’eccezione”
L’ebraismo, a un certo punto, era sembrato a Rahel, un difetto fisico, una disgrazia: come una gobba o un piede equino… Ma dall’ebraismo non ci si libera se ci si separa dagli altri ebrei. Quando si è soli è difficile stabilire se la diversità è una macchia o un’elezione .

Tuttavia, lamenta Arendt, secondo gli ebrei, e qui è consistito il loro errore, il passato si riesce a superare solo individualmente .
Kant parlava di eutanasia dell’ebraismo.
Christian Wilhelm Dohm, considerato un campione della tolleranza, scrisse per primo un libro sull’emancipazione civile degli ebrei, in cui sosteneva, però, che questi ultimi si dovessero depurare della loro ebraicità, e che dovessero, pertanto, scomparire in quanto ebrei.
L’ebreo Marx con la sua Questione ebraica, sosteneva che il giudaismo avesse sì portato la libertà politica, ma che avesse lasciato sussistere lo sfruttamento economico. Per lui ebreo era sinonimo di capitalista.
Solo per Herder, scrive Arendt, l’emancipazione degli ebrei diventa un fatto politico e non di tolleranza .
Più tardi in uno scritto del 1946, in verità, Arendt ricorderà che anche Humboldt era stato “uno dei pochi autentici democratici tedeschi” che sapeva distinguere tra «ebreo en masse e ebreo en détail». Humboldt mirava a liberare il popolo nel suo insieme, rifiutandosi di riconoscere i privilegi ai singoli ”.
L’ebreo che cerca dei privilegi come singolo, secondo uno schema teorizzato soprattutto da Bernard Lazare, era il parvenu.
Il parvenu entra con inganno in una società cui non appartiene .
Non sogna mai una modificazione della cattive condizioni di vita, ma semplicemente un cambio personale in suo favore .
Il parvenu è divorato da una serie di cose “non desiderate nemmeno, che però, se gli fossero negate, lo ferirebbero”, deve “adattare i suoi gusti, la sua vita, i suoi desideri”. Non ha il “diritto di essere se stesso” .
Il parvenu volendo essere a tutti i costi uguale, rinucia così non solo alla propria individualità, ma anche alla propia natura.
All’opposto la figura del paria , il quale rivendica come un valore la propria differenza.
Rahel, era un particolare tipo di paria: un paria, non dichiarato, non palese, ma un paria «esistenziale» che vive, cioè, forse senza saperlo, la propria esistenza di paria.
Il paria riesce a conservare il senso delle realtà vere rispetto al parvenu condannato a un’esistenza di sole apparenze. Quest’ultimo è mascherato e appare mascherato tutto ciò che tocca. Ma, “non si può a un ballo uscire da una fila per entrare in un’altra ”.

Il percorso della vita di Rahel è quella di un paria esistenziale che dopo aver fatto una vita apparentemente da parvenu, scopre alla fine di essere, in fondo , sempre rimasta fedele alla sua natura, e quindi di essersi, in questo senso, salvata.
Nel ricostruire la storia dell’assimilazione, però, Arendt si mostra ingiusta con Mendelsshon, messo nel mazzo di coloro i quali ritengono che gli ebrei sarebbero “un residuo penoso del medioevo ”.
Mendelsshon sarebbe stato indifferente all’emarginazione politica degli ebrei .
Solo con la ricezione di Mendelsshon, secondo Arendt, “le verità storiche e quelle della ragione vengono separate ”.
Mendelsshon, come rappresentante della “sofistica dell’assimilazione ” avrebbe falsificato la parte più importante dell’insegnamento di Lessing, secondo il quale le verità della ragione hanno pretesa di verità storica. La storia per Lessing è l’educatrice dell’umanità e l’individuo emancipato riconosce le verità storiche in virtù della ragione.
In realtà, però, Mendelsshon è ben diverso da come lo dipinge Arendt. In Jerusalem espone le teorie dell’ebraismo, attingendo alla cultura ebraica senza tentare una traduzione in termini di una cultura diversa. Distingue tra verità eterne (di ragione) e verità storiche. Queste ultime sono quelle che riguardano accadimenti umani e si basano sulla testimonianza. La rivelazione ebraica è una verità storica. Non è una verità eterna e razionale. Nella rivelazione cristiana, invece, vengono esposte verità che non sono oggetto di testimonianza. C’è quindi nella religione sia una dimensone razionale di verità, sia una dimensione di datità, di specificità. C’è una rivelazione ebraica che ha un carattere di storia, che è una verità eterna e razionale. Ma Dio in altri luoghi e in altri tempi ha dato luogo ad altre rivelazioni. Nessuna religione è di pura ragione, E’ questa la base del pluralismo di Mendelsshon. Pluralismo che in Mendelsshon è ben diverso dalla tolleranza se tolleranza significa unificazione o assorbimento delle fedi.
Gesù stesso, come ricorda Mendelsshon, con riferimento alla Torah e alle 613 Mitzwot ha detto che chi non è nato nella legge non deve mantenersi nella legge, e che solo chi è nato ebreo deve rispettare la legge. Lo stato moderno deve essere attuato nella molteplicità delle religioni. Secondo Arendt, Mendelsshon avrebbe portato all’ebraismo la razionalità illuminata e così avrebbe disseccato la storia. Ma, come abbiamo visto, non è vero che Mendelsshon non dia spazio alla dimensione storica
Tuttavia secondo Arendt, che lo oppone a Herder, Mendelsshon sarebbe, quindi, sovraesposto alle verità dell’illuminismo. Al contrario Herder svilupperebbe la sensibilità per identificare la specificità ebraica costituita dal patto sinaitico.
Rimane francamente inspiegabile questa incomprensione di Hannah Arendt per Mendelsshon, considerato da lei non solo il campione e quasi il responsabile dell’assimilazione, ma anche, quasi, un affossatore dell’ebraismo, mentre, al contrario, per tutta la sua vita Mendelsshon testimoniò la sua fedeltà alla tradizione ebraica.
Sorprendente poi che a Mendelsshon, Arendt contrapponga proprio Heine, il poeta ebreo che, a differenza di Mendelsshon, accettò di farsi battezzare, non per convinzione, ma, così aveva dichiarato, per pagare il biglietto d’ingresso nella cosiddetta cultura europea . E’ quella stessa cultura che, come Arendt ben sa, avrebbe avuto come coronamento ed epilogo lo sterminio degli ebrei d’europa.
Ma, in fondo, queste mie considerazioni della sottovalutazione di Mendelsshon da parte di Arendt , così come di alcuni paragoni discutibili, è abbastanza marginale e non tocca l’impianto generale delle argomentazioni. Si tratta, tutto sommato, solo di un esempio sbagliato portato a sostegno di argomentazioni giuste.
Rimane il fatto che per Hannah Arendt l’assimilazione sia stato un inganno in cui non è caduto solo il paria, vale a dire, l’ebreo che non rinuncia alla propria singolarità, non rifuta la realtà, e che, come Rahel, lascia cadere tutto su di sé, come in un temporale quando si è senza ombrello .
Allo stesso modo l’unico modo vero per pensare, secondo Hannah Arendt, rimane quello di pensare senza ringhiera , di “muoversi liberamente senza balaustre su un terreno famliare ” senza modelli prefissati, senza verità universalmente riconosciute. Poiché “ogni verità che è risultato di un processo di pensiero, necessariamente mette fine al processo pensiero ”.

Franco Maria Fontana, 2005