domenica 25 febbraio 2007

Recensione a "Auschwitz, il presente e il possibile" di Maria Bacchi e Fabio Levi. ed. Giuntina, Firenze 2005




Questo libro vuole essere una riflessione sulla necessità di insegnare Auschwitz e sui problemi che da questo compito derivano. E’ il risultato di un’esperienza sul campo durata più di due anni. E’ un libro sia teorico, sia descrittivo. E’ destinato agli insegnanti, ma anche a tutti quelli che, come Maurice Blanchot, non riescono a pensare “ad altra cosa che ad Auschwitz”.
E’ un dato di fatto che da alcuni anni si sta, sempre più, facendo strada la necessità di insegnare Auschwitz.
Numerosi sono i segnali in questo senso. Nel 1996 viene esteso lo studio del Novecento che diventa il programma esclusivo di Storia negli anni terminali dei cicli scolastici. Nel 2000 una legge dello stato italiano istituisce il 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz, come giornata della memoria. Due anni prima la Commissione Vaticana per i rapporti con l’ebraismo, , nel chiedere perdono agli ebrei, aveva affermato, con grande evidenza, il dovere della memoria.
Ma già fin dai primi anni 90 qualcosa si era mosso. Nel 1993 un importante Convegno su Shoah e deportazione nella didattica della storia, tenuto a Torino aveva posto le basi, anche teoriche per l’insegnamento della Shoah . Le iniziative sono tante e non si possono contare. Ci limitiamo a ricordare l’eccellente prontuario messo a punto da Clotilde Pontecorvo, inviato a tutte le scuole da parte del Ministero della Pubblica Istruzione e disponibile su Internet . Consiste in poche indicazioni, semplici, ma preziose, quasi un vademecum del buon insegnante:
a) evitare le rappresentazioni realistiche e i resoconti raccapriccianti;
b) favorire lo sviluppo di somiglianze e differenze con i perseguitati “anche usando storie di bambini”; al fine di favorire processi d’identificazione;
c) mostrare come la discriminazione di alcuni ha significato per altri un vantaggio economico e sociale;
d) collegare la discriminazione di allora a quella di oggi nei confronti non solo degli ebrei, ma degli attuali “diversi”;
e) stimolare e valorizzare la memoria familiare dei genitori e dei nonni.
Insomma sono finalmente lontani i tempi in cui Se questo è un uomo veniva ignorato o boicottato dai grandi editori.
Dobbiamo, allora, essere soddisfatti e pensare, che il problema della coscienza e della conoscenza su Auschwitz sia in via di soluzione?
Niente affatto.
Tutte queste pur lodevolissime iniziative, ciascuna da sola, e anche prese tutte insieme, non risolvono il problema. Anzi, mostrano tutta la loro inadeguatezza.
Per esempio, il livello di razzismo e di antiebraismo nel nostro paese, come anche nel resto di Europa, non è diminuito. Al contrario, ci giungono preoccupanti segnali di allarme. Lo testimonia il Rapporto 2003 dell’Osservatorio europeo dei casi di razzismo e xenofobia (EUMC) che registra un aumento delle manifestazione antisemite soprattutto in Francia Belgio, Regno Unito e Olanda. Ma anche in Italia gli “incidenti antisemiti” passano da 50 nel 1995 a più 100 nel 2002. Il rapporto, che mette in relazione l’aumento delle manifestazioni di antisemitismo con il conflitto arabo-israeliano, denuncia anche, senza però quantificarlo, un preoccupante aumento “dell’antisemitismo da salotto”, in cui “viene data voce all’antisemitismo latente”.
E’ evidente, allora, che bisogna insistere, fare di più, di meglio, di diverso.
Auschwitz, il presente e il possibile è la testimonianza, di una delle più significative iniziative prese in Italia per insegnare la Shoah. Il progetto è stato promosso dall’Istituto mantovano di Storia contemporanea, con la convinzione dichiarata che si potesse parlare senza difficoltà di un argomento così importante e che su temi tanto cruciali fosse possibile “cogliere modi e forme dei processi di formazione dei pensieri nei giovani”. I destinatari dell’iniziativa sono stati 250 preadolescenti (11-14 anni, di V elementare e III media) dell’area urbana e dell’immediata periferia di Mantova, senza distinzione di ceto, compresi anche numerosi ragazzi problematici dal punto di vista sociale e, come tali, considerati “esposti a devianza”.
La preadolescenza, come viene messo in chiaro dagli autori è l’età negata, l’età invisibile. L’adolescente tipo non esiste ed è solo una costruzione massmediatica.
Ma allora, chi è l’adolescente che ascolta le lezioni sulla Shoah?
Nel 1986 Primo Levi si era accorto che Auschwitz veniva letto nelle scuole come un evento lontano nel tempo, estraneo e remoto, come se si trattasse della guerra di indipendenza americana.
Il libro tenta una tassonomia dell’allievo tipo. Individua, per primo, il tipo “nuovo Franti”, citazione di citazione di citazione (da De Amicis, a Eco, a Starnone). Il “nuovo Franti” si beffa della Resistenza, simpatizza per i naziskin e seduce il buon Garrone con la sua voglia di trasgressione. Al lato opposto c’è quello che viene definito “l’ultimo studente di Primo Levi”. In una intervista rilasciata poco prima di morire Levi, infatti, descrive questo studente come ben pasciuto e composto ascoltatore del reduce di Auschwitz invitato dalla scuola. Ma al momento di prendere la parola, lo studente in questione si rivolge al sopravvissuto consigliandogli di usare “una pistola al raggio verde per spezzare il reticolato e fuggire in un’astronave”.
Tra questi due studenti ideal-tipo posti ai due estremi, c’è, secondo gli autori, un’immensa zona grigia “ancora più deprimente da affrontare, una maggioranza silenziosa soddisfatta e impenetrabile”.
Questa la pars destruens dell’analisi.
Ma, per gli autori è solo uno dei punti di partenza.
E infatti, subito, gli stessi autori osservano che, se questi ragazzi, ovvero la grande massa grigia, tacciono, forse è perché noi li concepiamo più come nostri “ascoltatori” che come nostri “interlocutori”.
Non è questa un’osservazione marginale.
La necessità di porre al centro “la persona con cui si sta dialogando”, vale a dire l’Altro, scritto a più riprese con la A maiuscola, alla maniera di Lévinas, orienta e guida, infatti, tutto il lavoro dei due autori. Questa scelta è assunta con piena coscienza e trasparenza fin dall’incipit del libro stesso, con una citazione, posta in esergo, tratta dal Teeteto, il dialogo di Platone che getta le basi dell’epistemologia occidentale e che mette in risalto, tra l’altro, la funzione maieutica dell’educazione.
Del resto, se l’allievo, in quanto interlocutore è esplicitamente messo al centro, è soprattutto la figura stessa dell’insegnante che, con altrettanto chiarezza, viene posta in discussione.
Tutte queste considerazioni che valgono, per l’educazione in generale, si rendono ancora più urgenti e imprescindibili per chi vuole insegnare non una materia qualsiasi, ma un evento della portata di Auschwitz. In proposito, a sostegno della bontà del metodo scelto, gli autori ricordano e rivendicano quanto alla fine degli anni 60 aveva scritto Adorno sulla necessità di evitare che si ripetesse una rottura dell’umanità come quella che si è verificata con Auschwitz. Secondo il pensatore francofortese, le condizioni che rendono possibile una tale rottura sono insite nelle strutture oggettive della nostra società. Pertanto la risposta all’imperativo etico “mai più Auschwitz” non può che passare, a sua volta, per la trasformazione delle condizioni e delle strutture che hanno reso possibile il disastro. Gli strumenti privilegiati, secondo Adorno, sono la pedagogia e l’educazione. Siccome Auschwitz è il frutto delle coscienze, chi vuole lottare contro il suo ripetersi deve mirare a trasformare le condizioni soggettive che formano la coscienza stessa. Le difficoltà che l’educatore prova nell’insegnare Auschwitz, allora, non sono altro che le proiezioni sugli allievi delle difficoltà del docente. Occorre quindi che l’educatore metta in discussione se stesso e si confronti con Auschwitz, sia dal punto di vista conoscitivo, sia da quello affettivo. E’ l’insegnante che per primo deve essere attraversato dalla difficoltà dei rapporti tra Storia e memoria, che per un evento come Auschwitz appaiono mutevoli e sfuggenti. E’ l’insegnante che deve operare un ritorno del soggetto su se stesso.
Da questa “pedagogia autoriflessiva” devono derivare almeno due conseguenze. La prima è l’autonomia della coscienza, la cui rottura, secondo Adorno, era stata alla base dell’affermazione del nazismo e della possibilità di Auschwitz. La seconda è il principio di responsabilità storica che deve essere assunto, sulla scorta di quanto indicato da Jaspers e Habermas, nel quadro di una solidarietà tra generazioni, anche per atti non compiuti personalmente.
Il giorno della memoria come ha ben osservato Davide Bidussa , non riguarda i morti, ma i vivi. La memoria di Auschwitz non è il contrario dell’oblio, ma dell’indifferenza. Commemorare non basta. Dobbiamo interrogare e interrogarci. La memoria pura, come ha messo in evidenza Stefano Zampieri , è una memoria morta se non determina una interrogazione e una messa in questione di noi stessi. Lydia Salvayre, autrice de La compagnie des spectres, alla domanda se avesse scritto un libro di memorie risponde: “è esattamente il contrario! La tortura, la morte del fratello non sono dei ricordi, sono il presente. Ogni mattina è il fatto stesso che si riproduce. Non c’è quello che presuppone la memoria, la possibilità dell’oblio, il lavoro del lutto” . In altre parole, Auschwitz non è un oggetto, un dettaglio della Seconda Guerra Mondiale. Non è un capitolo di storia in mezzo agli altri. Auschwitz, la metafora dello sterminio, rimane metafora. Infatti, non si lascia definire. Non si lascia mettere a tema, perché non è un tema, non è un oggetto. Un oggetto, infatti, andrebbe definito, ma definirlo significherebbe spiegarlo e spiegarlo sarebbe possibile solo se avesse un senso. Ma, appunto, Auschwitz non ha un senso. All’insegnante è richiesto, insomma, di fare poco meno che l’impossibile: spiegare Auschwitz, mostrando che non è spiegabile, che non ha un senso. E’ da qui che deve scaturire la crisi dell’insegnante. Infatti, “se l’insegnante, nel suo rapporto con Auschwitz non è passato attraverso un crisi conoscitiva e morale, è inutile che parli ”. E’ necessario poi, a partire dall’analisi del quotidiano e di tutto ciò che solo in apparenza è innocente, mettere in opera addirittura una rivoluzione copernicana: non rendere la criminalità normale, ma la normalità criminale .
Queste le basi teoriche della ricerca, cui, ci sembra, gli autori abbiano tacitamente aderito. Anzi, in qualche caso hanno anche dichiarato il loro punto di vista esplicitamente nella loro esposizione, richiamando Thanassekos, che a sua volta si rifà ad Adorno. Ma, soprattutto, questi princìpi li hanno applicati anche direttamente sul campo, nella loro esperienza pedagogica.
Entrambi gli autori Maria Bacchi e Fabio Levi, vantano una solida esperienza alle spalle. Maria Bacchi, oggi dinamica ricercatrice di Storia contemporanea, conosce bene i preadolescenti. In passato è stata insegnante elementare. Ha scritto, fra l’altro, Cercando Luisa, la storia di una bambina ebrea mantovana deportata ad Auschwitz.
Fabio Levi, che insegna Storia contemporanea presso la facoltà di Lettere dell’Università di Torino, ha scritto o curato, tra gli altri, numerosi libri di argomento ebraico. Tra questi: I ventenni e lo sterminio degli ebrei, Dodici lezioni sugli ebrei, L’identità imposta.
Il libro si compone di due parti ben distinte curate, ciascuna da un singolo autore. Maria Bacchi, ha condotto le conversazioni, e ha posto al centro della sua analisi il mondo dei preadolescenti. Fabio Levi, invece, si è orientato sull’immagine degli ebrei presso i gentili, tenendo conto anche di una sua precedente inchiesta nella facoltà di Lettere di Torino, che gli ha permesso di allargare il campo di osservazione anche alla fascia dei ventenni.
Il metodo usato per dare la parola ai ragazzi consiste nella scrittura individuale, e, soprattutto nella conversazione sia in classe, sia a due (in qualche caso estesa a tre).
Il libro, fin dall’inizio mette a fuoco le preconoscenze degli studenti. Più in particolare cerca di chiarire: a) che cosa gli studenti sappiano degli ebrei e che immagine ne abbiano; b) come associno i problemi dello sterminio con i problemi attuali; c) come la Shoah incida sulla loro visione del mondo; d) da dove provengano gli stereotipi più diffusi.
L’inchiesta è durata due anni, dal marzo 2001 al maggio 2003. In tutto sono stati prodotte 30 conversazioni per 60 ore di registrazione. Sono stati coinvolti 250 preadolescenti e circa 10 insegnanti (tutte donne, ma è stato “per caso”). Le conversazioni in classe sono state avviate senza un questionario prestabilito, ma sulla base del materiale informativo predisposto: dossier e fotografie, per lo più relative alle scene di vita quotidiana dei bambini di Mantova tra il 1938 e il 1940.
Il ruolo degli insegnanti interni è apparso fondamentale. La loro funzione di mediazione finalizzata a far accettare la presenza della figura esterna è stata decisiva. Ma nello stesso tempo si è evidenziata la necessità di un lungo lavoro per sapere come si fossero sedimentate le conoscenze degli insegnanti stessi.
Non c’è dubbio che il compito degli insegnanti non sia facile. Solo a partire dagli anni ’80, in Italia e nel resto d’Europa, si sono avuti i primi interventi significativi di revisione dei testi scolastici con i primi capitoli o paragrafi dedicati allo sterminio degli ebrei. Il tempo riservato dai programmi ministeriali a quest’insegnamento è scarso. Un’ulteriore difficoltà va ravvisata nel fatto che la generazione dei genitori dei ragazzi non ha vissuto le vicende avvenute sessanta anni fa ed è così venuta a mancare una fonte familiare e diretta da cui attingere. Inoltre un fattore di disturbo è rappresentato dal martellamento massmediatico che ha reso difficile la distinzione tra ebrei e stato di Israele. Come se non bastasse, la collocazione della Shoah in una qualsiasi disciplina, in particolare, nella storia, è problematica, al punto da apparire addirittura dubbio se sia lecito storicizzare la stessa Shoah.
C’è, infatti, un filo sottile, ma forte, che lega la storia alla memoria. .
Da un lato si registra, nel nostro tempo, una rottura del rapporto tra memoria e storia dovuta alla crisi nella trasmissione della memoria tra generazioni diverse. Tale difficoltà si aggiunge a quelle che derivano dal mero insegnamento della storia, già di per sé problematico. D’altra parte l’interesse per la storia sembra legato alla dimensione personale, familiare, autobiografica. Il deficit di memoria viene fatto risalire al fallimento della trasmissione intergenerazionale dell’esperienza. Di qui la scarsa capacità di stabilire nessi interpretativi tra il presente e il passato, con il conseguente disorientamento per quanto riguarda il futuro.
Alla luce di queste considerazioni, l’intervento pedagogico descritto nel libro tenta di riannodare il filo della memoria personale, emotiva e affettiva, che è andato smarrito, stimolando, anche attraverso incontri, il ricordo dei nonni e dei luoghi familiari. Queste iniziative sono state, in gran parte, coronate da successo.
Non è un caso che uno dei momenti più alti di questa esperienza sia stata la rappresentazione teatrale, organizzata dagli alunni. Il dramma metteva in scena la storia di Luisa, la bambina ebrea, prima strappata ai compagni di classe dalle leggi razziali del 1938, poi deportata ad Auschwitz. La rappresentazione ha avuto luogo nei locali stessi della scuola che Luisa aveva frequentato e dalla quale era stata così brutalmente allontanata. Anche per questo la rappresentazione ha suscitato forti emozioni fino a sconvolgere prima i cuori e poi le menti. Non solo degli allievi, ma anche delle stesse insegnanti. Rocco, un ragazzo di origine meridionale, vivace, intelligente, ma un po’ sbandato, dapprima dichiara: ”approvo il fascismo e mi sarei arruolato pure nella Repubblica Sociale”. Accetta di interpretare la parte di un SS. Solo dopo la recita, non riesce a spiegarsi quello che è potuto accadere. Comincia a prendere coscienza della sua contraddizione e finisce, forse, col mettere in discussione se stesso. Il tema della persecuzione è “un cuneo critico nella interpretazione del passato”. La rappresentazione è, anche, un momento fondamentale per mettere in discussione il concetto di colpa collettiva, quella colpa che si trasmette di generazione in generazione e che fa dire a una ragazza impegnata nella rappresentazione, giovanissima, ma, con tutta evidenza, già matura: “mi sono vergognata di quello che è stato, … comunque ne ho fatto parte pure io… essendo una persona italiana ho contribuito…..”
In altre parole, questa ragazza, riconoscendo che viviamo e partecipiamo a quello stesso mondo che ha generato Auschwitz, pone così, certo in modo irriflesso, ma chiaro, il problema della nostra responsabilità storica nei confronti sia del passato, sia del nostro agire presente. C’è anche una professoressa che “ha sentito l’intima necessità” di lavorare nella rappresentazione con i ragazzi, e che usa più volte nella sua spiegazione la parola “affettività”.
Lo stimolo delle storie familiari o locali ha fatto emergere dall’oblio episodi che sembravano dimenticati per sempre, come per esempio quello della vicenda del bisnonno di Gemma, un ebreo inutilmente convertito, perché egualmente perseguitato e costretto alla fuga in Svizzera.
Questa storia, ricostruita quasi per caso e di cui non ne era consapevole nemmeno la stessa diretta discendente, pone in termini razionali, ma anche affettivi il dilemma: perché i nazisti ce l’avevano con gli ebrei? Se per un fatto di religione, allora il bisnonno non doveva essere perseguitato in quanto convertito. Ma se era solo per un fatto di razza, perché il bisnonno si era dovuto convertire?
Da una cesura netta iniziale fra i ragionamenti sulla persecuzione degli ebrei mantovani ed europei e i problemi della presenza degli extracomunitari, si è passato attraverso momenti di empatia, anche favoriti dalla presenza di numerosi ragazzi di origine extraeuropea, al discorso sull’analogia con l’attualità della difficile convivenza di etnie diverse. Si è capito che la Shoah è un tema che aveva a che fare con l’esclusione e la fuga, con le frontiere, con i controlli e l’esilio, la precarietà delle dimore. “Io sono zingara, mi sento ebrea” dice una bambina (usando, questa volta con orgoglio, il termine, di solito evitato perché dispregiativo, zingaro e non quello più neutro, di Rom!). Aggiunge, poi, aprendo una finestra sulla storia millenaria della diaspora “essere zingari non è poi così brutto, perché viaggiano”.
Secondo Thanassekos , e sono gli stessi autori a ricordarlo, la riflessione su Auschwitz ci rinvia immediatamente alla critica del presente.
Insegnare Auschwitz non vuol dire, infatti, chiudere i problemi del passato in un recinto, con la conseguenza inevitabile della banalizzazione o della celebrazione.
Infatti, come ci ammonisce un’alunna “l’odio si potrebbe ancora scatenare contro gli immigrati”.
L’insensatezza di questo odio appare chiaro. Dall’analisi dell’immagine dell’ebreo, condotta nella seconda parte del libro da Fabio Levi, il tratto più evidente è quello del perseguitato. Appare ancora più chiara la mancanza di un senso, dall’impossibilità di spiegare i motivi dell’odio razziale, dal momento che non si riesce a dare nonostante i notevoli sforzi dedicati a tal fine, una definizione univoca di razza, o di ebreo.
Infine, un’ultima considerazione. L’insegnamento della Shoah, spesso è affidata alle parole di un testimone. Ma da solo il testimone non basta. Nedo Fiano ci dice che non è possibile essere al contempo testimone e storico . Il primo, infatti vede gli avvenimenti con sentimento, il secondo con distacco. Con la testimonianza si ottiene una partecipazione emotiva, che, però se non è sostenuta dall’insegnamento storico, rimane superficiale. La memoria non deve essere lasciata sola. Coesistono insomma due polarità: la ricerca storica e la testimonianza. Solo attraverso un confronto serrato e un’interazione tra questi due poli si può costruire una didattica capace di incidere sulla coscienza degli uomini: quelli di oggi e quelli di domani.
Solo così si potrà evitare che la barbarie di Auschwitz possa ripetersi.

Franco Maria Fontana, 2005

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