lunedì 12 maggio 2008

RENATO BRUNETTA, L'ULTIMO DEI LENINISTI?

























LA NOTIZIA:

Da Republica.it
Roma, 18:42
STATALI: BRUNETTA, COLPIRNE UNO PER EDUCARNE CENTO
"Colpirne uno per educarne cento". E' quanto ha dichiarato, nel corso della registrazione di 'Porta a porta', il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, in riferimento ai 'fannulloni' nella pubblica amministrazione.


IL COMMENTO
Renato Brunetta, veneziano, 58 anni, economista è il nuovo ministro della Funzione pubblica.
Simpatico, allegro e sanguigno come un personaggio di Goldoni, nel recente passato la sua vivace presenza ha animato i dibattiti televisivi. Ora, di sicuro renderà meno noiosi, gli altrimenti sordi e grigi Consigli dei ministri.
Il suo nuovo ruolo lo sta prendendo sul serio. Brunetta non è uno a cui piace tirare a campare. I problemi lui li vuole risolvere. Specie quelli annosi e insoluti. Vuole lasciare un’impronta di sé. Lavora con entusiasmo. In particolare è deciso a vincere la sua battaglia contro i fannulloni statali, che, a Roma, affollano i Ministeri e che mostrano una inesauribile creatività nell'escogitare cento e più trucchi pur di assentarsi dal lavoro.
In questa nobile lotta tutti i mezzi sono buoni, anche quello di rispolverare e mettere a nuovo un vecchio slogan del movimento rivoluzionario novecentesco che la storia aveva prudentemente messo in soffitta.
Se è vero quanto riferisce Repubblica, avrebbe pronunciato con riferimento agli statali fannulloni, da licenziare, questa frase programmatica: Colpirne uno per educarne 100.
Questo vuol dire che ogni 100 che si comportano male, lui ne punisce uno solo, il malcapitato. Gli altri 99, che magari sono fannulloni ancor più del malcapitato stesso, saranno risparmiati. Impareranno dall’esempio. Quell’uno che viene colpito pagherà per tutti. Peggio per lui.

Ora, a dire il vero, la frase attribuita da Repubblica a Brunetta, non è farina del suo sacco. Con questo non vogliamo togliere nulla al genio e all’inventiva del nostro ministro. Infatti, si sa, le parole e le frasi non sono proprietà esclusiva di nessuno. Ognuno di noi per parlare e per pensare ha bisogno del linguaggio, che è il risultato dell’esperienza e della cultura accumulata e trasmessa nei secoli e nei millenni. Ognuno per essere libero e per liberamente pensare, ha bisogno degli altri uomini. In particolare ha bisogno di maestri e degli altri uomini che lo hanno preceduto. Le parole e le frasi sono lì nell’aria a disposizione di tutti. Sta a ciascuno di noi saperle scegliere, afferrare, metterle in ordine, darle un senso. Non è facile. E’ qui che si distingue il genio dall'uomo comune. In questo forse consiste lo stile di uomo. Qui sta la nostra libertà. La scelta delle parole sono importanti.
Ce lo ha ricordato Nanni Moretti in una celebre battuta di Palombella Rossa.
Ma, soprattutto, più di due secoli fa, Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, ci aveva insegnato che “lo stile è l’uomo” con ciò volendo significare che l’essenza di ciascun uomo non è data dai contenuti, da quello che dice e nemmeno da quello che fa, ma dal suo stile, da come lo dice.
Per questo, se vogliamo scoprire la autentica natura di Brunetta è importante, ripercorrere la geneaologia del suo linguaggio.
Partiamo proprio dalla frase di questi giorni: Colpirne uno per educarne 100.
Quando l’avrà sentita per la prima volta?
Chi altro l’aveva detta prima di lui?
Da quali contesti l’avrà estrapolata?

Renato Brunetta, è nato nel 1950. Non gliene facciamo una colpa, ma, di sicuro, non si può negare che nel fatidico 1968 avesse proprio l’età critica: 18 anni. Coincidenza? Certo, ma coincidenza inquietante. Siamo poveri cristi gettati nella storia, come diceva Heidegger, e non possiamo farci niente se proprio nel 68 ci tocca di avere 18 anni.
La prima volta che avrà inteso quella frase, forse, fu quando venne pubblicata con tutta evidenza sui quotidiani del 4 marzo 1972. Il giorno precedente c’era stato a Milano il primo sequestro da parte delle Brigate Rosse. Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens era stato sequestrato per alcune ore e fotografato dai sequestratori, con una rivoltella puntata sulla guancia e al collo un cartello con la frase: “Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne 100”. Al ventiduenne Brunetta, allora laureando in economia, non sarà sfuggita quella foto così truce. Possiamo immaginare che l'abbia vista sul Gazzettino di Venezia mentre prendeva un cappuccino al caffé Florian di Piazza San Marco.

Guardando la foto, avrà notato nel cartello appeso al collo del malcapitato quella frase tanto minacciosa da rimanere ben impressa nella mente. Certo non l’avrà approvata. Anzi ne sarà rimasto turbato. Fu uno choc, la prima volta del terrorismo brigatista in prima pagina, la perdita dell’innocenza per il giovane Brunetta.
Forse quella frase, con il tempo, l’avrà anche rimossa, cancellata. Ma non del tutto perché deve esserne rimasta una traccia, seppure nascosta nello scrigno più recondito della sua psiche, pronta a ritornare in un soprassalto di memoria involontaria, alla maniera di Proust e del biscotto intinto nel tè.
Ma, se vogliamo dirla tutta, quella frase in quell’ormai lontano marzo 1972 ha origini ancora più remote. Non erano state le Brigate rosse a coniarla. Non era, per così dire, del tutto farina nemmeno del sacco di Renato Curcio, allora capo indiscusso di quella formazione politico-militare.
A questo punto va segnalato un altro fatto del quale, ancora una volta Brunetta non può aver colpa, il fatto, cioè, che il capo delle Brigate Rosse aveva il suo stesso nome: Renato. E i nomi sono importanti. Secondo un’alta tradizione culturale nel nome è contenuto il destino di ogni uomo. Pensiamo a Isacco (in ebraico: colui che riderà) o a Seneca (in latino se necat = si uccide) morto suicida. Pura coincidenza quella di chiamarsi Renato? Certo, ma coincidenza inquietante. E siamo già alla seconda.

Ma chi è che aveva già pronunciato quella frase prima delle Brigate Rosse? Da chi poteva averla sentita Curcio? Con ogni probabilità da Lenin. E infatti la frase la troviamo attestata in uno scritto di Lenin del 1905 (Note per il programma del II congresso del partito comunista (Bolscevico):”Il terrore deve fondersi con il movimento di massa […] perché i proletari seguono la regola colpirne uno per educarne 100”.
Ma a ben guardare, la frase non era del tutto farina nemmeno del sacco di Lenin.
La frase richiama infatti la nozione di Decimazione, quella pratica in uso nella Roma antica presso i Legionari, seconda la quale, in una Coorte che non si era mostrata valorosa, veniva scelto a caso una vittima ogni 10. Lo scopo era quello di terrorizzare i legionari obbligati per la paura a mantenere un comportamento più coraggioso in battaglia.
La decimazione era stata applicata da Marco Licinio Crasso nella guerra servile contro Spartaco nel 71 a. c. , una guerra che Lenin uomo di cultura interessato alla lotta di classe non poteva ignorare.

Ma le origini di quella frase non si fermano a Spartaco. Bisogna risalire ancora indietro nel tempo.
Il terrorismo attraverso la decimazione ha origini ancora più remote. E’ attestato da Tito Livio, che ne descrive una sua prima applicazione nel 471 a. c. durante la guerra della Repubblica Romana contro i Volsci.
E così via: il metodo di spargere terrore ai più punendo solo un numero ristretto si perde nella notte dei tempi e sarebbe vano cercarne un’origine se non nel mito.

Ora, dopo tutti questi ragionamenti, a scanso di equivoci, vogliamo precisare che è lungi da noi l'intenzione di paragonare il simpatico ministro del Funzione pubblica ai personaggi appena ricordati. Certo, Brunetta vuole rivoluzionare la Pubblica Amministrazione. Quindi, anche lui è mosso da intenti, a suo modo rivoluzionari e ha bisogno di un linguaggio adeguato.
Poi va anche detto che parlare di decimazione, nella proposta di Brunetta, sarebbe quanto meno un’esagerazione. Infatti, non di decimazione si tratta, semmai di centimazione, perché nel nostro caso Brunetta fa, come già Lenin, un bello sconto: non uno ogni 10, ma uno ogni 100.In fondo basta non essere sfortunati e, se si rientra fra i 99, ci si leva il pensiero
Poi Brunetta, non ammazza nessuno. Non ne sarebbe capace. Si limita a licenziare, azione molto meno cruenta, anche se non priva intrinsecamente di violenza e in grado di generarne a sua volta.
E in fondo, alla fine, tutto si aggiusta. Finché c’è vita c’è speranza.
Non è certo una tragedia,
Perché, aveva ragione Marx, quando scriveva «... tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte [...] la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa.»

Alla fine di tutto questo non ce ne voglia Brunetta. In fondo è migliore di molti suoi colleghi e, sotto sotto, nutriamo per lui una naturale simpatia.

domenica 11 maggio 2008

ANNA FINOCCHIARO: CHE PENA!


Leggiamo da Repubblica.it
«Trovo inaccettabile che possano essere lanciate accuse così gravi, come quella di collusione mafiosa, nei confronti del presidente del Senato, in diretta tv sulle reti del servizio pubblico, senza che vi sia alcuna possibilità di contraddittorio». Il presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro commenta così le affermazioni di Marco Travaglio su Renato Schifani, durante la trasmissione «Che tempo che fa» condotta da Fabio Fazio.


Mi sembra che Anna Finocchiaro confonda il diritto di replica che è sacrosanto, con il principio dell'obbligo del contraddittorio che, invece, è assai discutibile. Se poi vogliamo dirla tutta, tale principio, non è mai esistito né in Rai né altrove. E' solo una leggenda metropolitana invocata e rivendicata ad intermittenza da chi si trova a corto di argomenti. Del resto non potrebbe essere altrimenti. Anche perché, se così fosse, se cioè valesse il principio assoluto dell'obbligatorietà del contraddittorio, allora, per "i mariuoli", come li chiamava un tale con involontaria autoironia, diventerebbe un gioco da ragazzi imporre il silenzio sulle proprie malefatte e, quindi, continuare a delinquere tranquillamente. Sarebbe sufficiente far mancare la propria presenza al contraddittorio. Che poi siano proprio i politici a invocare il contraddittorio e a farlo all'indomani di una campagna elettorale basata, unico caso in Europa, con la sola eccezione della Russia di Putin, su una serie di monologhi o di interviste addomesticate, non so se faccia più ridere o piangere.
In questa particolare occasione Finocchiaro, non ha saputo evitare, per l'ennesima volta, di andare in soccorso della maggioranza e dei potenti. Schifani, infatti, ha tutti i mezzi mediatici per replicare e difendersi, direttamente o indirettamente e, ci sembra, che tutta la casta, maggioranza e opposizione, lo stia già facendo in coro e in forma di linciaggio contro la trasmissione di Fazio, costretto alla gogna mediatica delle scuse in diretta, umilianti per lui e per tutti gli spettatori.
Fazio ha fatto autocritica come si usava una volta. Si è mostrato contrito. Anche lui "tiene famiglia". Per il momento il suo nome non andrà ad aggiungersi alla lista in cui già figurano Luttazzi e la Guzzanti.
Per fortuna, questo coro così unanime dei politici, con l'eccezione del solo Di Pietro, contrasta in modo stridente con quelli che sono i sentimenti generali dei cittadini.
Un instant poll di stampa.it, lanciato in merito alle scuse pronunciate da Fazio a Schifani dà, sulla base delle prime 3233 risposte, al quesito:
"Dopo l'apparizione a "Che tempo che fa" Marco Travaglio è stato ripreso dalla Rai che ha definito il suo atteggiamento «deprecabile». Con chi vi schierate?"
i seguenti risultati:
3233 voti totali
Con la Rai (600) 18%
Con Marco Travaglio (2633) 81%"


Non sono certo un fanatico della democrazia elettronica, di cui conosco i rischi. Tuttavia, credo che questo eloquente risultato sia qualcosa di più di un campanello d'allarme. I nostri governanti, insieme ai loro morbidi oppositori, ombra di un opposizione più che opposizione ombra, alleati in questa union sacrée di maggioranza e minoranza, hanno totalizzato l'esigua minoranza del 18%. Questi signori dovrebbero meditare sulla loro incapacità sia di orientare, sia di interpretare le opinioni del popolo sovrano, incapacità che, alla lunga, determina il crescente isolamento che li circonda.
Di più, dovrebbero cogliere elementi per riflettere sui motivi del loro evidente disprezzo verso i cittadini e su quanto questo disprezzo sia così ampiamente ricambiato.


Le considerazione fatte da Travaglio su Schifani sono tutte pubblicate sul documentatissimo libro "Se li conosci li eviti" di recente pubblicato e sono reperibili sul blog di Di pietro
Il video dell'intervento di Travaglio in trasmissione è su Youtube.
Le scuse in diretta di Fazio e la controreplica di Travaglio sono su corriere.it.

sabato 10 maggio 2008

15 MAGGIO 1948 - 2008: 60 ANNI DI NAKBA PALESTINESE



15 maggio 1948 - 2008
60 anni di occupazione: basta!
un solo paese per arabi ed ebrei in Palestina

venerdì 9 maggio 2008

ATTICISMO MILITANTE ovvero IL DIFFICILE RAPPORTO TRA LA SINISTRA E LE TERRAZZE

(dall’inserto satirico de l’Unità: M del 5 maggio 2008, anche dal sito di Stefano Disegni)




Mario Adinolfi, l’ancor giovane blogger del PD, primo dei non eletti a Roma nella lista del suo partito, nel commentare queste tavole di Stefano Disegni , ci ricorda un episodio che ha segnato la sua educazione sentimentale. Fu quando, appena adolescente, nella metà degli anni 80, avvicinatosi al mondo della politica si convinse a iscriversi alla DC perché -così gli dissero - la Democrazia Cristiana era "il partito dei portieri e dei figli dei portieri” mentre , "quelli dell'ultimo piano sono sempre comunisti" . Fu, a suo modo, una scelta, anticonformista, per un giovane dell’epoca. Ma anche una scelta discutibile e paradossale. Discutibile, perché, nonostante le motivazioni plausibili, anzi, addirittura nobili, caricava la debole categoria dei portieri di condominio di una responsabilità morale e di una capacità di orientamento politico, a dir poco, esagerata. Paradossale, perché, per andare controcorrente finiva con il legarsi a un partito stabilmente nella corrente del potere da più di 40 anni.
Ma mal gliene incolse. Infatti, il ciclone tangentopoli avrebbe ben presto spazzato via la DC, lasciando solo e sconsolato il povero Adinolfi. Particolarmente bersagliato dalla sfortuna, bisogna dire, perché anche ricoprire la posizione numero 17 (è proprio vero che anche i numeri hanno un'anima e un destino!) e di primo non eletto su una lista di 16 eletti è un fatto che brucia tanto da far pensare di essere nato sotto una cattiva stella.

Io, che sono esattamente di una generazione più vecchio di lui e che posso, quindi, dall'alto dei miei 65 anni, guardare Mario Adinolfi quasi come un figlio, ho altri ricordi. E ritengo utile un confronto generazionale tra le differenti educazioni sentimentali maturate nei diversi contesti.
All’inizio degli anni 60, studente del liceo classico Giulio Cesare di Roma, scuola di destra in un quartiere dominato dai missini di Caradonna (così si chiamavamo allora gli attivisti del Movimento Sociale Italiano che operavano a Corso Trieste), assistevo alle sempre più ricorrenti incursioni delle squadracce fasciste fuori della scuola. Non erano studenti e nemmeno facce note nel quartiere. Si trattava quasi sempre di picchiatori di professione trentenni che si allenavano in palestra e facevano il bello e il cattivo tempo con le loro vigliacche spedizioni punitive contro i pochissimi ragazzini di sinistra. Uno di questi picchiatori, ricordo, era privo di una mano, ma colpiva forte con il moncherino metallico. La mano gli era esplosa con una bomba durante un attentato. Quella di venire a date fisse "a darci una lezione", come loro stessi amavano ripetere, era una singolare maniera di festeggiare le ricorrenze del calendario fascista e di imporcele. Due date le ho ancora impresse nella mia mente e, mio malgrado, nel mio corpo: quella del 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci dei combattimento, e quella del 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma.
Antonello Venditti, anche lui studente del Giulio Cesare durante prima metà degli anni 60, nella canzone "Compagno di scuola" parla, appunto delle "fughe vigliacche nei corridoi". Si riferiva, appunto alle fughe provocate dalle spedizioni punitive dei fascisti in quegli anni. Insomma, essere comunisti in un liceo classico, a quei tempi e in quel quartiere non era una passeggiata. C’era il rischio di rompersi l'osso del collo e, per giunta, di rimanere isolati con il resto degli studenti e dei professori, anche loro, in gran parte, di destra. Senza contare le incomprensioni con i genitori che non la pensavano certo come me.
Ma mi sembrava una cosa giusta prendere la via meno facile: quella di schierarmi dalla parte dei più deboli. Fu così che io e pochi altri compagni di scuola e di fede politica decidemmo di dar vita, nel febbraio 1962, alla prima cellula comunista nella storia del Giulio Cesare, di cui fui il primo responsabile. Un incarico di cui ancora oggi vado fiero.
Più tardi, entrato nel mondo del lavoro continuai, nella migliore tradizione comunista, a non ascoltare quelli che mi consigliavano, per il mio bene, di "farmi gli affari miei". Anzi mi impegnai con passione a "farmi gli affari degli altri". Per esempio, mi adoperai per promuovere il glorioso sindacato, allora unitario, dei metalmeccanici (FLM) nell'azienda dove lavoravo, che fino ad allora ne era sprovvista. Anche per questo e per aver osato contrastare il potere aziendale, dovetti subire un licenziamento per rappresaglia, poi rientrato grazie alla solidarietà di tutti i lavoratori. Un altro licenziamento mi venne minacciato, anni più tardi e questa volta fu addirittura il segretario generale del mio sindacato in persona a salvarmi. Ora che sto in pensione, e sono in grado fare un bilancio quasi definitivo della mia vita, posso dire di non aver fatto una grande carriera. E' giusto che sia così. In fondo, anche se, a detta dei più, non mi facevano difetto alcune potenzialità, ero, sono e rimarrò fino alla morte un inguaribile rompiballe e per giunta di sinistra. Mi va bene così. Nessun rimpianto.
Insomma, essere comunista, essere di sinistra negli anni 60 e all'inizio degli anni 70 costava tanto e bisognava pagare caro.
Ma non sarebbe stato così ancora per molto. La modernizzazione stava incalzando,i tempi stavano cambiando e la sinistra si adeguava rapidamente.

Dalla seconda metà degli anni 70, ci fu, infatti, un’inversione di tendenza, che finì con il tradursi in un vero e proprio cambio di paradigma
Essere di sinistra non sarebbe stato più un ostacolo al perseguimento del proprio "particulare". Al contrario si sarebbe trasformato in un viatico, quasi indispensabile, per conquistare prestigio, successo, ricchezza nella vita e nella società. La Sinistra Atticista, che non è certo un'invenzione di Stefano Disegni, ma che ha avuto anche l'onore di un film di Ettore Scola (La Terrazza, 1980), si è sviluppata soprattutto a partire dalla metà degli anni 70, quando essere comunista non comportava più, come una volta, rischiare l'isolamento, le botte e il licenziamento, ma, al contrario, offriva la possibilità di una serie di vantaggi, comodità e opportunità.
Proprio in quegli anni stava emergendo nel Pci di Roma una nuova generazione di militanti, diventati, con sorprendente rapidità, quadri e poi dirigenti del partito. Avevano in comune una caratteristica: erano tutti figli di parlamentari del PCI, oppure ne avevano sposato le figlie. Tra questi spiccavano una serie di personaggi che alcuni decenni dopo avrebbero fatto parlare molto di sé: un certo Giuliano Ferrara, figlio dell'on. Maurizio Ferrara, un certo Massimo D'Alema figlio dell'on. Giuseppe D'Alema, e un certo Veltroni genero della senatrice Franca Prisco.
Ora 30 e più anni dopo siamo qui a leccarci le ferite e a raccogliere i frutti amari di questo funesto raccolto di figli e di generi di parlamentari.

Torniamo, ora, al problema dell'attico, da cui eravamo partiti. In proposito debbo confessare, che io, per quel che mi riguarda, l'attico ce l'ho da una vita. Tuttavia non mi riconosco in certi atteggiamenti “atticisti militanti” della sinistra snob che pure sono tanto diffusi quanto odiosi.
Ma la colpa può essere solo dell’attico?
Davvero è l’attico che fa diventare odiosi?
Forse, per ritornare ad Adinolfi bisogna distinguere anche tra diverse generazioni di abitanti degli attici.
Tra quelli che l’attico ce l’avevano e che malgrado l’attico sono diventati comunisti, e quelli che l’attico non ce l’avevano, ma che sono riusciti a farselo proprio grazie al fatto che erano comunisti.
E questo può spiegare anche perché ci troviamo di fronte alle macerie di una sinistra che non sa più riconoscersi, una sinistra senza un popolo di sinistra, arrivistica, snobistica, affaristica, hollywoodiana e palazzinara.
Una sinistra circondata, prima di tutto, dal disprezzo di quelli che pretenderebbe di rappresentare.
Una sinistra, un tempo di classe, ora di casta.
Una casta che, tenendosi a distanza dai più deboli per non rimanerne infettata, dall'alto delle sue terrazze e dei suoi attici, ha rubato i sogni e le speranze di milioni di donne e di uomini.
Una sinistra rossa sì, ma solo di vergogna.
Una sinistra che non riusciamo più a riconoscere, come con sguardo profetico, già 50 anni fa, aveva anticipato Pasolini, in una poesia che insieme ad altre ha contribuito alla educazione sentimentale della mia generazione:

"Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,/
sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:/
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,/
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli".


(epigramma "Alla Bandiera rossa" scritto nel 1958, da "La religione del mio tempo" di Pier Paolo Pasolini)

martedì 6 maggio 2008

(a proposito della Festa del Cinema di Roma) ... E SE ALEMANNO AVESSE RAGIONE?


(dalla panoramica finale di "Roma città aperta" di Rossellini)

Jean-Luc Godard nell'"Histoire(s) du cinema" sosteneva che il cinema italiano del neorealismo era stato l'unico a resistere all'occupazione del cinema da parte degli americani.
Senza capitali, senza divi, senza finte scenografie di cartapesta, magari, come nel caso di Rossellini, con pellicole scadute, ma con tante idee e tanta passione.
Come un piccolo David, il neorealismo italiano, aveva vinto Golia, il gigante americano.
Aveva vinto anche la sua battaglia culturale contro il potere politico dell'epoca nel nostro paese, secondo il quale non era conveniente esibire al mondo intero la società con le sue miserie, ma anche con la sua fierezza. Al contrario, "i panni sporchi- ripeteva Andreotti - si dovevano lavare a casa".
Ora, viceversa, da anni non solo abbiamo perso questo primato, ma sembra che stiamo facendo di tutto quasi per farci perdonare, come se fosse una colpa, la mancanza di rispetto per il gigante americano, la presunzione di aver mantenuto la schiena diritta, di aver dato vita a un cinema il più possibile autonomo e libero dai condizionamenti commerciali.
Veltroni e la sua gestione frivola e festaiola della Festa del cinema di Roma con l'impronta divistica e hollywoodiana, conferita a questa manifestazione hanno precise responsabilità in questo senso. Con una patina di scintillante mondializzazione e con un esercito di Uffici stampa impegnati solo nelle vendite e nella pubblicità , hanno voluto mascherare il sostanziale provincialismo di chi, privo di idee proprie, si limita a scimmiottare e adulare i potenti. Allora, non c'è nulla di male, se, proprio da Roma si vuole segnare una ripresa dell'autonomia del cinema italiano ed europeo, che punti sulla qualità e sulle idee e che volti le spalle a quella che già negli anni quaranta un filosofo come Theodor W. Adorno bollava con l'epiteto di "industria culturale".
Che sia un ex fascista a proporlo non deve essere un motivo di rifiuto pregiudiziale. Non si tratta di fidarsi delle intenzioni di Alemanno, ma solo di prenderlo in parola e sottoporlo alla nostra critica. Non senza interrogarci sul perché la sinistra, anche nel cinema, si sia ridotta così male, al punto da lasciare certe battaglie culturali alla destra.

(da "Histoire(s) du cinéma" di Jean-Luc Godard)

IL RICHIAMO DELLA FORESTA FASCISTA


Si può andare contro la propria natura, una, due, tre volte, ma prima o poi, la natura stessa si ribella e non ne vuole più sapere di essere violentata E' quello che è capitato al nuovo Presidente della Camera dei Deputati Fini, che non ce l'ha fatta a mantenersi misurato come, invece gli riusciva abbastanza bene da un po' di tempo in qua.
E, al fine di mostrarsi comprensivo con i suoi camerati fascisti e nazisti ha finito col mettere sullo stesso piano un comune reato d'opinione quale quello, puramente simbolico, di vilipendio della bandiera con un ferocissimo assassinio gratuito che ha stroncato la giovane vita di un ragazzo incolpevole.
Ma non gli è bastato, ha perfino aggiunto che l'omicidio del ragazzo di Verona, ad opera del branco nazifascista, è meno grave del vilipendio alla bandiera di Israele ad opera di alcuni manifestanti dei Centri sociali di Torino.
Eccesso di patriottismo?
Non ci risulta un pari fervore in difesa della bandiera italiana quando questa fu ingiuriata nel peggiore dei modi dal suo alleato di governo Bossi. A cosa è dovuta, allora, tanta passione per la bandiera d’Israele? All’amore viscerale per gli ebrei?
Non direi. Per un fascista come lui che ancora nel 1992 celebrava il 70° anniversario della Marcia su Roma con il saluto romano a Piazza Venezia, luogo della memoria sacro per i fascisti e i nazisti, non è credibile tanto fervore per la causa degli ebrei.
Chissà quanti dei suoi camerati si sono fatti delatori di quegli ebrei che, proprio a causa di questa immonda collaborazione, furono, in seguito, deportati ad Auschwitz da dove non sono più tornati!
Certo si può anche cambiare idea, e ci si può anche, autenticamente, pentire e sperare nel perdono.
Ma allora, in questi casi, la cosa migliore è il silenzio.